L’amara realtà della produzione mondiale di zucchero
Il
New York Times (International Edition,
1° agosto) ha dedicato parte della sua prima pagina e un approfondimento interno al fenomeno dello sfruttamento nelle aziende di zucchero indiane. L’articolo descrive le condizioni brutali a cui sono sottoposte le donne che lavorano la canna da zucchero, obbligate a contrarre matrimonio da bambine e a lavorare assieme ai propri mariti, a subire pressioni di ogni sorta, a sopportare estenuanti orari di lavoro, a vivere in tende allestite dai titolari delle fabbriche senza acqua e luce, a essere controllate costantemente durante i turni. La soggezione verso il datore di lavoro o verso l’appaltatore di mano d’opera è in molti casi aggravata da condizioni debitorie che le rendono totalmente ricattabili e disposte ad ogni sacrificio pur di non perdere il posto di lavoro. Nel Maharashtra, lo stato di Mumbai, la produzione di zucchero è una delle attività più redditizie e importanti, un’attività che occupa più di un milione di lavoratori, di cui la metà sono donne che spesso subiscono, in giovane età, un’isterectomia totale per eliminare quei fisiologici problemi femminili, come i dolori mestruali o la possibilità di rimanere incinta, che limitano o condizionano la produttività. Esistono delle organizzazioni, come la Bonsucro, che dovrebbero verificare la sostenibilità, ambientale e sociale, nei processi di lavorazione della canna da zucchero, ma, denuncia il
New York Times, i controlli sono formali e le certificazioni rilasciate nascondono una realtà fatta di sfruttamento, pratiche di lavoro che violano sistematicamente i diritti umani, condizioni da schiavitù da debito. Sono le amare condizioni di un sistema sociale che sfrutta i lavoratori e le lavoratrici di zone arretrate per produrre zucchero da utilizzare per dolci, alimenti, bevande prodotti da importanti gruppi internazionali e venduti sul mercato mondiale.
Leggendo il documentato articolo del
New York Times, vibrante di comprensibile sdegno per le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori indiani, per l’inadeguatezza, se non la complicità, degli organismi che dovrebbero garantire un controllo sul rispetto di standard minimi di civiltà e tutela delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera, una parola ci è risuonata più volte nella mente: utopia.
Nonostante le condizioni di drammatica sottomissione dei lavoratori di questo settore e di queste aree ai diktat aziendali, agli imperativi del profitto, siano note da tempo, la situazione non solo non è cambiata ma addirittura si è formato una sistema di “vigilanza” sui diritti dei lavoratori che o non ha i mezzi per vigilare o addirittura risponde alle indicazioni e alle esigenze delle stesse aziende responsabili di queste condotte vergognose. Non solo, l’articolo del quotidiano newyorchese ci spiega come è sorto questo sistema di controlli compiacenti. Alcuni grandi marchi, posti sotto pressione da campagne di denuncia, da boicottaggi a causa dell’impiego di lavoro minorile in condizioni degradanti o per gli effetti ambientali dei processi produttivi che facevano capo ad essi, hanno cercato una soluzione su misura dei propri interessi borghesi: il
social auditing, un sistema di controllo imperniato su organismi di fatto a loro volta sotto controllo. Ci sono segmenti di consumatori che hanno da ridire sul fatto che la produzione di un capo di abbigliamento o di un prodotto alimentare sia affidata ad una filiera in cui la dignità, la salute, la vita dei lavoratori sono sistematicamente calpestate? No problem, si mette in piedi un sistema di controllo che risponde ai vertici di questa filiera (attraverso cui i vari soggetti partecipi e responsabili dello sfruttamento della forza lavoro possono anche, all’occorrenza, giocare allo scaricabarile, come è evidente anche nel contesto della produzione agricola italiana) e ci si attribuisce praticamente da sé la fatidica qualifica di produzione “sostenibile”. Salve così le coscienze e soprattutto i profitti.
Di fronte a questo dramma su scala globale, a questa mostruosa prova di forza, prepotenza e sfacciataggine offerta dal potere economico, politico, sociale di grandi gruppi capitalistici, lo storico quotidiano democratico e progressista statunitense cosa propone? Un risolutivo sussulto civile dei consumatori? La genesi di poteri pubblici di controllo sovranazionali in grado di imporsi su questi enormi, mostruosi interessi capitalistici? E su quali basi sociali, poggiando su quali rapporti di forza?
Spesso veniamo tacciati, noi rivoluzionari, di utopismo. In realtà il nostro compito, il nostro obiettivo, la nostra lotta sono difficili, enormi, epocali. Noi per primi ne siamo coscienti. Ma non sono per nulla utopistici.
Utopia – ed è una stanca, debole, assai poco limpida utopia – è favoleggiare che nell’era del capitalismo maturato imperialisticamente, dei colossali gruppi economici, del mercato mondiale e della sua spartizione tra enormi interessi capitalistici e attraverso l’azione di Stati imperialisti, sia possibile dare vita ad effettivi organismi regolatori che rispondano alle richieste di
fairtrade di una generica opinione pubblica, di un bacino di consumatori adeguatamente illuminato.
Utopia è pensare e predicare che si possa pervenire ad una società in cui, pur continuando a dominare il capitale e la sua prioritaria corsa al profitto, il rispetto della dignità umana, dell’integrità dell’essere umano possa imporsi sistematicamente sulle altre considerazioni e gli altri imperativi, che invece determinano di fatto la dinamica capitalistica globale. Utopia – falsa e ingannevole utopia – è quella secondo cui è possibile convincere il capitale a considerare sistematicamente la merce forza lavoro come qualcosa di diverso da una merce.