Una titanomachia senza dei
Del film Napoleon di Ridley Scott si è detto e scritto molto. Non sono mancate le critiche circa la scarsa fedeltà storica del film, critiche di fronte alle quali si è fatto ricorso alla scorciatoia argomentativa secondo cui l’opera cinematografica non è tenuta al rigore storico e non è giudicabile sulla base dei parametri della veridicità storica. Il punto su cui vogliamo soffermarci non è però il grado di accuratezza storica bensì il senso della storia, la sensibilità storica che il film trasmette. Da questo punto di vista, l’opera riveste un indubbio interesse. È una trasposizione efficace di una percezione di massa, di una concezione diffusa e oggi prevalente di un tornante storico come la Rivoluzione francese e l’epoca napoleonica. La grande rivoluzione borghese, questo drammatico e grandioso parto della modernità capitalistica, è risolta in una plumbea orgia di violenza politica, una sanguinaria notte della ragione di massa, torme di belve umane da cui si sottrae – non a caso – la sola, dignitosa figura di Maria Antonietta. Robespierre è una marionetta ideologica sovrappeso, patetica vittima di quello stesso furore ideologico che l’aveva innalzato. Su questo sfondo si snoda la vicenda – inspiegabile nei termini proposti dal film – di un ometto privo di carisma, di spessore politico, persino di contraddizioni o ansie che non si riducano alle preoccupazioni per gli adulteri della moglie (in ragione dei quali non esita ad abbandonare in Egitto le armate della Repubblica da lui comandate per far ritorno precipitosamente in Francia a verificare di persona la condotta della fedifraga), ma la cui figura reale è stata storicamente capace di ipnotizzare per un certo periodo di tempo Hegel, Beethoven, Goethe, Foscolo, Manzoni. L’ascesa e la caduta di Napoleone non hanno un retroterra, un significato sociale, sono le vicissitudini individuali di un – non si capisce perché – predestinato al potere (potere di cui è assente ogni connotato storico, ogni significato di classe). Come ebbe modo di scrivere il critico letterario Luigi Lunari a proposito de L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, «i personaggi sono – letteralmente – inconsistenti», che sia il selvaggetto di provincia che smania sotto il tavolo, i caricaturali profili dei membri del Direttorio, lo zar di tutte le Russie en passant seduttore della generosa ex imperatrice. I passaggi della sceneggiatura sono finalizzati a non altro traguardo «che quello del tableau finale (oggi diremmo della “foto di gruppo”) al momento fatidico del “sì”. Dopo di che il sipario cala, e tutto si dissolve». I personaggi «ritornano alla fantasia che li ha creati, la loro sopravvivenza nel mondo è del tutto inimmaginabile». D’altronde come può rimanere nel mondo della memoria storica, come può acquisire consistenza nel presente del costante divenire storico, la vicenda di un'individualità piccolo borghese inghiottita in un turbine di rivoluzioni e battaglie, che non può evocare altro che il giudizio shakesperiano su una storia che è solo «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla» (e da cui sembra sottrarsi – ancora una volta non a caso – solo la sprezzante e aristocratica razionalità del duca di Wellington). La rappresentazione della Rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica come la grottesca parabola di un uomo senza qualità immerso passivamente in un’epoca di assurdi conflitti e ancor più assurdi impeti ideologici dice molto dei nostri tempi, del livello della società borghese dei nostri tempi.
Eppure – come è stato fatto notare con acume (HuffPost, 26 novembre) – Ridley Scott aveva esordito nel lontano 1977 con un film, I duellanti, tratto da un racconto di Joseph Conrad, che offriva una lettura dell’epopea napoleonica di ben altro spessore.
Può apparire paradossale, ma in quel film di fine anni ’70, Napoleone non appariva mai di persona, ma tutto suggeriva la tensione, il dramma e la grandezza di un’epoca che aveva trovato in lui la figura simbolo. Napoleone e il suo bicorno non compaiono mai, ma cosa ha significato, politicamente, socialmente, l’epopea napoleonica è un elemento che emerge potentemente per tutto il film. Mito bonapartista, restaurazione, destini individuali come parte di grandi moti di nazioni e classi, tutto questo profondo senso della storia è presente senza che vengano esibite masse urlanti, messi in scena muti dialoghi con le mummie (momenti tristi come possono esserlo solo i momenti cinematografici che si vogliono memorabili e iconici senza riuscire ad esserlo veramente) o venga cannoneggiato tutto il cannoneggiabile. Napoleone è assente ma tutto ciò che ha storicamente rappresentato aleggia su tutto il film. Napoleon è l’esatto contrario. L’imperatore è onnipresente, salta, zompa e rotola per tutto il film ma è come se non lasciasse traccia alcuna. Come è stata possibile questa disperata involuzione? Sui singoli fattori soggettivi non possiamo esprimerci. Possiamo però constatare come il Ridley Scott de I duellanti fosse parte di un clima sociale, di una temperie culturale e politica differente dall’attuale. La celeberrima esortazione manzoniana – ai posteri l’ardua sentenza – non ha tenuto conto di come la posterità potesse comprendere il degrado della società borghese affermatasi anche con l’epopea napoleonica, come questo degrado potesse investire anche i modi, i concetti, le sensibilità con cui questa borghesia degradata avrebbe guardato alle proprie stesse radici, al proprio giovanile, furente, sanguinoso slancio rivoluzionario. Nella mitologia greca, la titanomachia, la guerra tra titani e dei, si conclude con la vittoria delle divinità olimpiche. Ai titani della borghesia non sono subentrati e non potevano subentrare gli dei. E così oggi anche il dramma titanico delle origini del mondo borghese finisce nel misero teatrino delle ideologie di una classe imputridita nel privilegio. Intimorita, imbarazzata e a disagio persino di fronte alle grandi ombre dei suoi antenati.
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