LORO E NOI - 06/10/2023
 
A ognuno il suo copione

Dopo la tragica morte di cinque operai nella notte del 30 agosto, al lavoro sui binari della stazione di Brandizzo, si erano immediatamente articolate tutte le sfaccettature ideologiche a difesa del modo di produzione capitalistico, tutte tese nei fatti a non riportare gli effetti alla causa reale. Scriveva Lenin nel Che fare? che «la coscienza delle masse operaie non può essere una vera coscienza di classe se gli operai non imparano a osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale, morale e politica; se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le forme d’attività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione».
Ad oltre un mese di distanza dal tributo di sangue pagato dalla nostra classe all'altare del Capitale o la notizia è finita nel dimenticatoio assieme allo stillicidio quotidiano di morti bianche, oppure ritorna su alcuni giornali per un seguito di cronaca che si arricchisce di ulteriori elementi meritevoli di denuncia politica.
Dopo aver visto la condotta delle aziende coinvolte, del padronato, i commenti degli esponenti politici borghesi, populisti o meno, ecco che (nuovamente) la figura del prete deve dire la sua, recitare la parte che gli spetta nel copione della tutela dell'esistente.
E cosa dice il parroco durante le esequie di Giuseppe Lombardo, uno dei cinque operai morti la scorsa estate? Lo riporta il quotidiano La Stampa del 29 settembre: nella chiesa di Sant'Antonio da Padova a Vercelli il prete, «davanti a quel che resta di Giuseppe» precisa lui, ci dice che «lavorare è pericoloso». «Preghiamo per tutti i morti sul lavoro. Morti che ci saranno sempre, anche con tutta la prudenza. Anche con tutte le precauzioni. Perché lavorare è pericoloso e non dobbiamo mai dimenticarlo. Preghiamo».
Nell'omelia riecheggiano le parole «incidente», «sventura». Tutto ciò sarebbe dunque nient'altro che inevitabile fatalità?
Spiegava Lenin che l’operaio, se vuole essere operaio cosciente, «deve avere una chiara visione della natura economica, della fisionomia politica e sociale del grande proprietario fondiario e del prete, dell’alto funzionario e del contadino, dello studente e del vagabondo, conoscerne i lati forti e quelli deboli, saper discernere il significato delle formule e dei sofismi di ogni genere con i quali ogni classe e ogni strato sociale maschera i propri appetiti egoistici e la propria vera "sostanza", saper distinguere quali interessi le leggi e le istituzioni rappresentano, e come li rappresentano».
Il prete professa, insieme al suo Dio, anche l'accettazione del capitalismo, delle sue ineliminabili contraddizioni ed è incapace di indicare alla classe sfruttata una via per riscattarsi in questo mondo, ecco qual è la «vera sostanza» di questo strato sociale. Predica rassegnazione ad eventi di cui non vede o non vuol vedere la causa.. .o peggio ancora rifila alla nostra classe, tra un miserere e un'estrema unzione, una giustificazione astorica e rassegnata («morire sul lavoro è un dato di fatto. Si muore. Le attività umane sono rischiose»).
Le conseguenze tragiche ma estremamente conseguenti dello sfruttamento della forza-lavoro proletaria hanno radice nelle pressioni martellanti a massimizzare profitti, aumentare i ritmi di lavoro, la precarietà e la ricattabilità dei lavoratori (il figlio di Giuseppe al funerale ha dichiarato che «mio padre è un uomo che è stato consumato dal suo lavoro», «tornava a casa sfinito. Faceva questo enorme sacrificio per la sua famiglia», «quando tornava dai turni, faceva fatica a stare in piedi» ... che grado di sicurezza si pretende all'operaio torchiato fino allo stremo?).
Noi nelle morti sul lavoro, vediamo chiaramente i logici effetti di un modo di produzione con le sue regole stringenti, un modo di produzione che può e deve essere superato quanto prima.