I confini del Global South
Il vertice del G20 tenutosi a New Delhi il 9 e il 10 settembre è stato ampiamente interpretato come una altisonante candidatura dell’India a nazione guida del cosiddetto Global South.
Ma questa, se rimane posta in questi termini, è solo una formula vuota. Occorre capirne i contenuti reali.
Prima del vertice, le autorità indiane hanno voluto rendere “presentabili” le aree della capitale che sarebbero finite sotto i riflettori dei mass media internazionali e gli sguardi degli illustri ospiti.
Il sito dell’agenzia Asia News (6 settembre) riporta come, in vista del summit, gli slum vicini al centro congressi siano stati «rasi al suolo» e decine di migliaia di residenti «che vivono in condizioni di marginalità» siano stati sfrattati.
L’edizione online del quotidiano britannico The Guardian (8 settembre) ha descritto le barriere con cui pudicamente le autorità indiane hanno voluto nascondere i quartieri più poveri agli occhi dei dignitari stranieri e i gravi effetti che i blocchi e le restrizioni imposte per tutelare la sicurezza dei partecipanti al vertice hanno comportato per i lavoratori giornalieri. «Dobbiamo morire perché siamo poveri?» si chiede un’addetta alle pulizie. Un abitante di una delle baraccopoli poste di fronte «al nuovo e scintillante centro congressi» ha dichiarato: «Siamo stati trattati come insetti, non come esseri umani». L’India che dalle pagine delle maggiori testate internazionali e dai comunicati dei vertici dell’imperialismo mondiale si proclama alfiere del Global South non è una generica, indistinta India. È la borghesia indiana che, come tutte le borghesie, ammanta di nobili parole e intenti la propria vocazione predatoria, il proprio spietato perseguimento del profitto e del rafforzamento della propria quota nella spartizione dei mercati su scala mondiale. Il Global South di cui i poteri della borghesia indiana si proclamano portavoce e paladini non comprende le baraccopoli di New Delhi.
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