LORO E NOI - 17/08/2023
 
L’infido tributo I

Gli omaggi della borghesia sono sempre subdoli. Nella ricorrenza del 67° anniversario della tragedia mineraria di Marcinelle (262 minatori morti, di cui 136 di nazionalità italiana), il vice premier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha voluto fornire un’interpretazione circa il significato storico di quella strage di lavoratori.
I lavoratori di nazionalità italiana morti a Marcinelle «sono coloro che hanno permesso al nostro Paese di diventare la seconda potenza economica dell'Unione europea, sono coloro che hanno permesso la crescita dell'Italia. Se oggi siamo nel G7 lo dobbiamo anche a loro». (Rai News, 8 agosto).
Come nel più scontato e untuoso copione retorico, la morte dei lavoratori, la cui sicurezza è stata sacrificata alle esigenze di profitto, è diventata sacrificio nel nome della comunità nazionale. Il capitale, con le sue leggi (oggi più sacre che mai), ha imposto la morte dei proletari ma alla fine è giunto il lieto fine per tutti: l’Italia potenza economica. E pazienza se i figli (e intendiamo ovviamente questo termine nel senso di classe, di continuità di condizione sociale) dei minatori di Marcinelle, nell’Italia fieramente appartenente al G7, continuano a morire nei cantieri, nelle fabbriche, nei mille luoghi e transiti del loro quotidiano sfruttamento in nome della sacralità di quelle logiche capitalistiche che produssero la tragedia del 1956. E pazienza se i figli dei minatori di Marcinelle sono oggi selvaggiamente sfruttati nei campi dell’orgogliosa produzione agricola italiana a chilometro più o meno zero, sono facchini dell’arrembante settore della logistica sottoposti a condizioni e ritmi di lavoro massacranti e a cui le autorità dell’Italia accomodatasi tra le grandi economie del pianeta tendono a distribuire in abbondanza soprattutto manganellate. I figli dei morti di Marcinelle sono i proletari odierni, alle prese con un lavoro sempre più precario e a cui la borghesia non può promettere altro che un futuro di spietata incertezza, sudore, sangue e... parsimonia.
Il senso delle frasi del ministro è lo stesso che ha sostenuto le colossali operazioni ideologiche con cui i morti proletari delle guerre imperialistiche sono diventati eroici patrioti di una patria senza classi, senza lotta di classe e senza differenti interessi di classe: lo sfruttamento omicida del proletariato è stato fatto diventare il doloroso ma necessario prezzo per l’ascesa dell’economia italiana nella competizione globale, il massacro dei proletari al servizio della spartizione imperialistica è stato celebrato in migliaia di monumenti, in un tripudio di profitti e fasce tricolori. Ad ognuno il suo posto nel generale lieto fine della società capitalistica. Ad una classe utili e potere, all’altra omaggi ingannevoli (fusi nel bronzo o reiterati in serie nella moderna fabbrica mediatica del consenso) con cui sublimare la ferrea continuità del proprio asservimento. La borghesia non vuole solo la carne viva del proletariato da cui estrarre plusvalore, vuole anche la sua anima, la sua morte. È necessario per la perpetuazione del proprio dominio. Che i morti di Marcinelle riposino, innocui, nel riconoscimento di quel significato della loro morte che è gradito alla classe che li ha sfruttati e uccisi…
Questa loro celebrazione retorica è la negazione della vera, autentica memoria – memoria come consapevolezza delle profonde ragioni storiche dell’evento, delle sue reali condizioni e dei suoi reali effetti, memoria come elemento di continuità storica e di continuità di un’azione emancipatrice contro i rapporti sociali che quel drammatico evento hanno determinato – che come tale può essere solo di classe. Tornerà questa memoria, torneranno i morti di Marcinelle e tutti i caduti proletari della barbarie capitalistica, a risuonare nella piena, viva voce della rivendicazione della loro classe, rigettando come rifiuti tossici i viscidi omaggi dei discendenti sociali, delle attuali espressioni della classe che su quei morti operai ha fatto i soldi. Tornerà a farsi largo la memoria della classe rivoluzionaria, facendo a brandelli la pletora di bandierine e steccati nazionali con cui oggi si mistifica e depotenzia la portata storica della morte proletaria.
L’unica vera memoria dei morti proletari, dei morti sotto la dominazione della schiavitù salariata, che sia socialmente, storicamente viva, è – come indicò Marx di fronte al primo grande assalto al cielo – quella custodita nel «grande cuore della classe operaia».