Panzane neozariste
Puntuale, è arrivato il richiamo di rito alla mitologia della “pugnalata alla schiena”.
Quando i leader, i governanti, i comandi militari della classe dominante si trovano alle prese con i limiti, le difficoltà, le conseguenze e le implicazioni più traumatiche e ingestibili dell’esercizio del loro potere di classe, non mancano mai di additare i “traditori”, il “nemico interno”. Sono loro, devono essere loro i responsabili di insuccessi, disfatte e crisi che non possono, non devono avere le loro radici nelle oggettive disfunzioni dell’assetto sociale e meno che mai nell’impreparazione e nelle carenze delle espressioni politiche e militari della stessa classe dominante. È più comodo, è una formula deresponsabilizzante, è l’invocazione del capro espiatorio con cui il potere della classe dominante cerca di compattare l’insieme del corpo sociale intorno a sé, lasciando contemporaneamente in ombra quelle reali, profonde contraddizioni da cui originano le sofferenze che si abbattono sulle masse sfruttate.
Il presidente russo Vladimir Putin non ha fatto ovviamente eccezione.
Messo sotto pressione dalla quasi marcia su Mosca intrapresa dai mercenari del gruppo Wagner, ha prontamente denunciato le losche manovre di chi, nelle retrovie, sta sabotando l’altrimenti vittorioso sforzo bellico in Ucraina. Nemmeno l’ormai regolare, quasi ossessivo, richiamo all’annus horribilis, il 1917, deve stupire. Il vertice del potere politico dell’imperialismo russo, indebolito e in affanno su molteplici fronti, che si atteggia a continuatore della storia e della (dubbia) grandezza zarista, è comprensibilmente a disagio con la memoria di quest’anno cruciale.
Si riferiva, Putin nel suo discorso, al tentato colpo di Stato militare del generale Kornilov contro il Governo provvisorio di Kerensky nell’agosto 1917 (come è stato suggerito sulla stampa internazionale da osservatori evidentemente più storicamente avvertiti di quanto abbiano dimostrato autorevoli penne della stampa nostrana, ormai prone alle più squallide, manichee e fasulle semplificazioni quando si tratta di affrontare gli sviluppi della Rivoluzione russa e soprattutto della sua culminante fase bolscevica)? Più probabile, e più in continuità con precedenti uscite “storiche” del leader del Cremlino, che gli strali putiniani siano stati rivolti all’Ottobre o in genere all’azione rivoluzionaria e disfattista dei bolscevichi. Ancora una volta, non ci sarebbe nulla da stupirsene. Né ci stupisce la grossolana falsificazione storica insita nella retorica dei vertici dell’imperialismo russo. Che le forze armate russe fossero ineluttabilmente in marcia verso la vittoria nel 1917 e che solo gli intrighi e la pugnalata alla schiena dei “traditori” abbiano «rubato» loro la vittoria (The Guardian, edizione online 24 giugno) è insieme una truffa storica e una esagerata attribuzione di capacità di intervento e di margini di azione alla soggettività politica rivoluzionaria. L’azione rivoluzionaria ha potuto dispiegare la sua opera disgregatrice del regime zarista e borghese perché la società russa era attraversata da laceranti sperequazioni e conflitti, era minata da profondissime contraddizioni e segnata da terribili nodi irrisolti, perché le classi dominanti russe avevano dato prova di una gigantesca, vergognosa, feroce inadeguatezza. Perché il macello della guerra aveva messo ancora più violentemente in luce tutte queste realtà, rendendole insopportabili per il proletariato e le masse contadine. La strategia rivoluzionaria bolscevica ha potuto concretizzarsi, trovare spazi e condizioni reali per dispiegarsi perché, come ricorda Trotsky nella sua Storia della Rivoluzione russa (un’opera che rimane di una forza e di una capacità di penetrare i fatti storici inarrivabile per gli scribacchini che oggi impazzano sulla scena mediatica italiana, riproponendo la favoletta del golpe bolscevico mai arrivato alla vera dignità delle rivoluzioni, quelle che per essere tali devono ottenere il placet della classe dominante...), «L’unica cosa che i generali russi facessero con slancio era estrarre carne umana dal paese. La carne di manzo o di porco si trattava con un’economia incomparabilmente maggiore».
Non stupisce che il 1917 e le analogie storiche con alcune condizioni che hanno reso possibili gli sconvolgimenti di quell’anno agitino i sonni di Putin e dei borghesi russi. Purtroppo dobbiamo oggi tranquillizzarli: il proletariato russo non sta mostrando segni di insofferenza e di reattività come manifestò allora e non esiste una forza rivoluzionaria nemmeno lontanamente paragonabile ai bolscevichi. La quasi marcia su Mosca di una formazione di mercenari del tutto integrata nello squallido e sanguinario quadro della borghesia russa è una turbolenza, una mossa interna alle lotte e alle faide di questa classe di sfruttatori e di massacratori di proletari.
Ma se Putin e tutti borghesi, di tutti gli Stati impegnati più o meno direttamente nella guerra imperialista in Ucraina possono oggi tirare un sospiro di sollievo perché la rivoluzione, la vera rivoluzione, la rivoluzione della classe dominata contro la classe dominante, non è ancora all’orizzonte, è bene ricordare che nelle profondità della disumanizzante società capitalistica, delle feroci dinamiche imperialistiche, sta maturando ben altra resa dei conti rispetto a quelle andate in scena tra le varie anime nere della borghesia russa. Sarà la resa dei conti imposta da una classe proletaria che oggi sta fornendo ancora carne da sfruttamento e carne da cannone. Che sta riempiendo le trincee e le fosse comuni di un conflitto tra schieramenti imperialistici lungo la linea di faglia ucraina.
Arriverà, e non potranno scongiurarla né i tossici esorcismi storici degli zar al servizio del capitale né le democratiche scomuniche dei sacerdoti dei dogmi del “libero” imperialismo. Libero, anch’esso, ovviamente, di sfruttare, ingannare, arruolare, ammazzare i proletari.
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