LORO E NOI - 09/06/2023
 
Concorrenza sleale

Ne il Resto del Carlino online del 31 maggio è apparso un titolo che è tutto un programma: «Battaglia contro i grandi brand "Giù le mani dalle nostre orlatrici e lasciateci lavorare in pace"». La vicenda è presto detta: Due imprenditori marchigiani titolari di un tomaificio che occupa 28 dipendenti, sforna 200 paia di scarpe al giorno e fattura 2,2 milioni di euro l’anno, hanno un grattacapo che forse, nell’Italia dell’indiscutibilità dei bassi salari, non si aspettavano davvero di dover affrontare. Alcuni grandi brand del settore che stanno «invadendo il distretto calzaturiero» (si noti come la libera concorrenza diventa invasione quando sono le aziende di cui s’è riferimento mediatico a subirla), non esitano ad utilizzare la loro maggiore disponibilità di capitali per offrire salari più alti e porre dunque in essere un’opera di «saccheggio» di operai calzaturieri specializzati, la cui forza lavoro è, a quanto pare, una merce sempre più introvabile. «Giù le mani dalle nostre orlatrici – si sfogano i due imprenditori, evidentemente increduli di ciò che gli sta capitando – Siete grandi brand, avete più mezzi, risorse e capacità di quanto possiamo averne noi, per cui formatevi da soli queste figure e lasciateci lavorare». Leggere nell’articolo i cahiers de doléances di questi due soggetti, se non ci fosse di mezzo la dignità di operai reificati al punto da essere considerati oggetto di «scippo» tra entità capitalistiche, è quantomeno spassoso: «Le griffe fanno offerte in termini di stipendi e benefit che non siamo in grado di contrastare, mettono sul piatto il ‘fascino’ del lavoro per il brand e sottraggono risorse umane che per noi sono linfa vitale, compromettendo la nostra capacità produttiva, fino a rischiare di farci morire». Cosa fare dunque per risolvere il problema di non poter, purtroppo per legge, incatenare gli operai ai loro banchi di lavoro impedendogli di migrare verso chi gli offre di più? Forse fare una contro-offerta più alta? Non sia mai: il pagare poco gli operai, specialmente nella realtà italiana, oltre che l’unica forma di competitività per molte aziende medio-piccole, è anche un dogma indiscutibile, una tradizione consolidata, un patto sociale tra imprenditori la cui mancata ottemperanza assume i contorni del tabù. Forse cercare di compensare migliorando le condizioni di lavoro? Macché, anzi, per riuscire a formare nuova forza lavoro, questa povera azienda sotto assedio, ha dovuto chiedere alle dipendenti più esperte di fermarsi in fabbrica oltre l’orario di lavoro per avviare al mestiere quattro nuove operaie (e avrà dovuto pure pagar loro gli straordinari! Una iattura dopo l’altra!). Non resta dunque che «metterci la faccia sperando che il messaggio arrivi a destinazione», e confidare pertanto sul fatto che soggetti capitalisticamente più forti, rinuncino a valorizzare appieno il loro capitale per permettere a soggetti capitalisticamente più deboli di “vivere in santa pace”. Oppure, che una sovrastruttura politica oggi in rinnovato odore di autarchia e patriottismo, si adoperi per frenare il sacro verbo del libero mercato, che invece deve imporsi implacabilmente quando si tratta di licenziare i dipendenti ed esigere per loro meno tutele e meno forme di welfare se espulsi dal ciclo produttivo, ovviamente nel sacro nome della libera concorrenza.
Che nell’Italia piccolo borghese-centrica, il bisogno di maggior potere d’acquisto da parte di un operaio soffocato dall’inflazione e dall’insindacabile immobilismo salariale venga trattato come elemento del tutto irrilevante, e, se soddisfatto, come circostanza oggettivamente nociva a fronte della primaria esigenza di sopravvivenza dell’impresa e dell’imprenditore come soggetto sociale, non ci stupisce. Ciò che di nuovo rileviamo, è la formula secondo la quale, nell’imperialismo straccione italiano, in cui lo sconfinato esercito di piccole imprese riesce a stare a galla solamente tramite la compressione dei salari e in cui la “moderazione salariale” è stata addirittura garantita nel Documento di economia e finanza, l’offerta di benefit e di un salario più alto, diventa a tutti gli effetti “concorrenza sleale”.