L’identikit del “vincitore”
Che i salari italiani siano insufficienti a garantire un livello di vita dignitoso ad una quota sempre maggiore di proletariato, è ormai una circostanza talmente evidente e comprovata, che anche la stampa borghese più spregiudicatamente avvezza alle peggiori capziosità (ineguagliabile il titolo de Il Foglio del 18 agosto 2022: «Il problema dei salari italiani “bassi” è che non sono così bassi») ha iniziato a non negare più. Tuttavia, una volta ammesso che di realtà si tratta, è necessario, per la borghesia, responsabile sia dell’aumento dei prezzi che dei bassi salari, non figurare tra chi potrebbe essere chiamato in causa per ristabilire un più sopportabile rapporto tra salario effettivamente corrisposto e costo di produzione e riproduzione della forza lavoro.
Alla soluzione di questo problema concorrono, in epoca contemporanea, due sostanziali scuole di pensiero, che spesso si sovrappongono. La prima nega che vi sia un responsabile a livello sociale e, pertanto, nega che vi sia una soluzione che esuli dalla sfera individuale. In sostanza, l’imprenditore diventa invisibile, non viene mai citato, sfugge a qualsiasi giudizio poiché la sua figura sociale, unitamente al suo scopo (fare profitto), rientra nell’ordine naturale delle cose, è espressione della più autentica natura umana, ed è pertanto insindacabile. Se il proletario vuole uscire dalla sua condizione naturale, che è l’indigenza, semplicemente deve smettere di essere proletario. Ed ecco dunque le urtanti ideologie che tanto ammorbano chi ha anche solo un barlume di istinto di classe: “ognuno è artefice del proprio destino”, “bisogna mettersi sempre in gioco, riqualificarsi, essere imprenditori di se stessi”, bisogna essere più intraprendenti, più dinamici e soprattutto “rivoluzionarsi dentro”, e magari, perché no, saper “investire bene” i pochi risparmi che ancora si hanno a disposizione. Non importa se si hanno tre o quattro decenni di fabbrica o di cantiere sulle spalle, non importa se da 35 anni si lavora come operatore socio sanitario e si ha la schiena a pezzi e una gran voglia di approdare ad una pensione che non arriva mai: se non si arriva alla fine del mese, la colpa è sempre di “se stessi” e del proprio scarso istinto competitivo. La seconda soluzione, invece, mira più semplicemente ad individuare un capro espiatorio: è colpa degli immigrati, dello Stato e della politica (la cui azione è ovviamente rappresentata come totalmente sganciata dalla tutela degli interessi della classe dominante), oppure, mal che vada, della frazione borghese avversaria.
Ebbene, La Stampa dell’8 maggio ci dà un saggio formidabile di quale sia, in questo senso, la sintesi ideologica partorita dall’intellighenzia liberal-progressista italiana. La figura sociale responsabile del progressivo impoverimento delle ultime generazioni di lavoratori salariati – l’imprenditore – viene totalmente eclissata sia da riferimenti generici ad una non meglio specificata “società italiana”, sia – soprattutto – dall’identikit del “cattivo” di turno.
Il ragionamento parte da un recente studio sul gap salariale tra lavoratori di diverse generazioni. Nel 1985 un salariato 35enne guadagnava in media il 20% in meno di un collega 55enne, mentre nel 2019, il gap raddoppia attestandosi al 40%. Come intitolare una simile notizia? Forse col titolo “Lavoro, i datori di lavoro pagano sempre meno i nuovi assunti?”. Macché! La Stampa, in prima pagina, sceglie il titolo: “Lavoro, l’Italia è contro i giovani”. L’Italia (tutta la società italiana senza distinzione di classi sociali) è contro i giovani (tutti, dal rider precario al figlio dell’imprenditore brianzolo). Le cose si fanno più interessanti quando compare la figura eletta dalla stampa progressista a capro espiatorio. Di chi è, in sostanza, la colpa se il gap salariale è raddoppiato negli ultimi 40 anni? Chi sono i «vincitori» della «battaglia degli stipendi e delle carriere, in quel rebus che è diventato il mondo del lavoro»? Niente di meno che i lavoratori «anziani» che «occupano i posti migliori, fanno carriera, e non lasciano le seggiole libere, ma solo posti in piedi» ai «vinti», ovvero i lavoratori «giovani dalle belle speranze». Da questa “analisi”, dunque, scopriamo che i veri vincitori nell’attuale scenario capitalistico non sono gli imprenditori che stanno macinando profitti sulla pelle di generazioni di lavoratori sempre più precari e ricattabili. Non sono i grandi gruppi economici che accumulano ricchezze colossali, mentre per nuove leve di proletari la normalità sta diventando sempre di più un salario vergognoso. Non sono tutti quei borghesi a cui una classe politica, complice e accomunata dalla matrice di classe, garantisce rendite e sovvenzioni, mentre per i lavoratori non più giovani il traguardo di una pensione decente sta diventando un miraggio e il mercato del lavoro una giungla sempre più spietata. No, i veri vincitori sono quei lavoratori che hanno fatto in tempo ad ottenere una pensione con cui vivere dignitosamente ed ottenere condizioni di lavoro e salariali che non li rendessero totalmente ricattabili e completamente alla mercé della controparte sociale. Il gap salariale tra i lavoratori giovani e quelli meno giovani si è allargato? La soluzione per La Stampa è semplice: livelliamo tutti verso il basso. E che i giusti risentimenti dei lavoratori giovani e precari si scaglino contro i lavoratori più anziani e più “tutelati”. Gli esperti della borghesia analizzano il problema e indicano il comodo colpevole. Il padronato ringrazia.
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