LORO E NOI - 13/02/2023
 
I galletti dell’imperialismo

Sui tetti delle case, soprattutto di campagna, erano un tempo frequenti le banderuole segnavento, spesso a forma di gallo.
Questi galletti, in genere in rame o ferro battuto, servivano ad indicare la presenza e la direzione del vento, consentendo previsioni meteorologiche.
Sul Corriere della Sera del 24 gennaio Federico Rampini si è espresso sul «grande gioco africano».
Con una certa franchezza, l’editorialista indica il continente africano come «una posta in gioco nella divisione del pianeta in aree di influenza geopolitiche». E pensare che questi stessi ambiti giornalistici ed ideologici che “scoprono” la spartizione del pianeta in sfere di influenza possono sempre replicare all’occorrenza i rituali anatemi contro il concetto leniniano di imperialismo. Si vede che l’aggettivo “geopolitico” e altre formule possono fungere da scappatoia di fronte a quello che sarebbe il coerente riconoscimento della validità della definizione teorica della fase suprema del capitalismo, circonlocuzioni, giri di parole con cui indicare i nodi, le sfide dell’imperialismo ma senza il disturbo di chiamarlo con il suo nome.
Posto di fronte ai compiti e alle esigenze reali della competizione imperialistica, il celebre giornalista e saggista si può spingere persino a indicare situazioni e concorrenti per quello che sono, lasciando perdere travestimenti ideologici e mistificazioni propagandistiche. Ecco allora comparire il «capitalismo di Stato» cinese che fa incetta di contratti pubblici, accompagnato da «un milione di imprenditori cinesi», incarnazione di un arrembante capitale privato alla conquista del «Far West» africano. La condanna degli orrori del presunto comunismo cinese tornerà utile in altri momenti e in altre sedi (ministro Valditara docet).
Ma Rampini non si ferma qui. Si parla di cose serie, di investimenti e profitti, di farsi largo nella competizione sui mercati emergenti. Roba di sostanza, faccende grosse di sua maestà il capitale, questioni che toccano nel vivo gli interessi dei veri referenti della grande stampa, mica le pappette ideologiche da rifilare al lettore e all’elettore proletario.
Altro, quindi, va messo da parte senza indugi.
Basta – esorta Rampini – con i complessi di colpa coloniali, basta con i «processi alle intenzioni» intentati da ong e magistrati ancora succubi dell’ideologia terzomondista contro le povere «multinazionali occidentali». Basta con il «nostro estremismo dei diritti umani»!
Ma non basta ancora. Va bene la ricerca di «energia nordafricana e mediorientale», va bene l’idea di un Piano Mattei. Ma, gratta gratta, «nel Mediterraneo oggi si viene rispettati se si ha la forza delle armi». Non a caso, aggiungiamo noi, da almeno quattro anni nei simposi organizzati dallo Stato Maggiore italiano si parla di “Mediterraneo allargato”, un concetto che comprende l’area dal Mar Nero al Golfo di Guinea passando per il Mar Rosso...
I tempi stringono, la competizione incalza, i concorrenti avanzano. È tempo di scartare richiami, principi, formule retoriche che in altre fasi della storia della borghesia italiana sono parsi sacri e intoccabili.
Il Rampini realpolitiker che oggi punta il dito contro i sensi di colpa per un passato coloniale che non deve diventare un fardello nella corsa alla nuova spartizione africana, che evoca le flotte militari nel Mediterraneo, non è certo l’artefice politico di una qualsivoglia svolta di fronte all’intensificarsi della contesa.
Ma anche i tempi dell’imperialismo hanno i loro galletti segnavento.