LORO E NOI - 28/11/2022
 
L’uomo che scoprì il capitalismo

Era stato anche soprannominato “l’uomo più solo al mondo”.
«Aveva circa 60 anni e da 26 non comunicava con altri esseri umani. L’ultimo abitante del Territorio Indigeno di Tanaru, nello Stato di Rondônia, nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, è stato trovato morto il 23 agosto. I rappresentanti della FUNAI (Fundação Nacional do Índio), l’agenzia che in Brasile si occupa della protezione delle terre e dei diritti dei popoli indigeni, lo hanno rinvenuto su un’amaca fuori da una delle sue capanne di paglia, coperto di piume come se si fosse preparato alla sua morte, avvenuta - sembra - per cause naturali.
Con la scomparsa di quest’uomo, di cui nessuno conosce il nome, si è estinta un’intera popolazione - il primo genocidio ufficialmente documentato di una tribù di questo Stato, di certo non l’unico
» (Focus edizione online, 30 agosto).
Il suo popolo è stato sistematicamente braccato e massacrato, con la connivenza delle autorità politiche, in nome del perseguimento di interessi economici (nuovi spazi per l’allevamento, attività estrattive etc.). L’ultimo sopravvissuto aveva conosciuto tutti i volti della società capitalistica. Quello “cattivo”: trappole avvelenate, armi da fuoco, la caccia al “selvaggio”, la brutalità diretta, aperta, della bassa manovalanza di sua maestà il capitale. E quello “buono” (gli aneliti, le premure residuali, negli spazi e nei modi consentiti dalle leggi sociali, autentiche del capitalismo): gli spazi protetti riservati ad una specie in estinzione, la difesa del più disperato isolamento come ultima garanzia di sopravvivenza. Nel 2018, commentando la diffusione di un video che documentava l’esistenza ancora in vita di questo superstite (una documentazione importante anche per continuare a garantirgli per legge la tutela di una porzione di terra contro pressanti interessi economici e le loro espressioni politiche), il sito della BBC (20 luglio 2018) riportava che la sua tribù non aveva nome e la sua lingua era sconosciuta.
Adesso la storia di un’intera comunità che era stata capace di trasmettere ad un suo membro le abilità, le conoscenze, la struttura mentale, l’incredibile equilibrio psicologico per continuare a vivere, da solo, in una foresta per 26 anni, è svanita nel nulla. Nel nulla di una società che impiega veramente, pienamente, le sue enormi, spaventose risorse solo in favore di ciò che è merce e mercificabile.
La BBC ha riportato le parole di una ricercatrice appartenente ad un’associazione di difesa dei diritti dei popoli indigeni, a commento degli atteggiamenti diffidenti e scontrosi manifestati in passato da quest’uomo, quando è stato avvistato: «Ha subito un’esperienza così violenta, che vede il mondo come un posto molto pericoloso».
Ha visto il mondo plasmato dal capitalismo. Un mondo davvero molto pericoloso, e non solo fisicamente. Ma anche per la sopravvivenza di tutte quelle caratteristiche, di tutti quelle concezioni e valori che ha sviluppato, nel corso della sua travagliata storia, l’essere umano organizzato in collettività, l’essere umano che solo in comunità e riconoscendosi nei valori che questa comunità cementavano e in cui questo vivere collettivo si riconosceva, ha potuto sopravvivere e trasformare sempre più l’ambiente di cui era parte secondo i propri interessi di specie. Ma oggi lo stadio sociale in cui l’essere umano è organizzato, il capitalismo, ha portato al capolinea di questa storia, ha innescato un cortocircuito: la sopravvivenza del capitale è sempre più in contraddizione con la sopravvivenza delle condizioni di vita della comunità umana.
La vita e la morte dell’ultimo appartenente ad un popolo incompatibile con gli interessi del capitalismo, la morte di quest’uomo che suo malgrado ha scoperto il capitalismo, non è la triste fine di un “buon selvaggio”. Dice qualcosa di importante e di grave per tutti noi, uomini imprigionati nel capitalismo.