LORO E NOI - 28/11/2022
 
Let people go

Sul sito di Meta, la casa madre di Facebook, il gran capo in persona – uno Zuckerberg molto addolorato – ha annunciato il 9 novembre che, a fronte di profitti non all’altezza delle aspettative e non in linea con le previsioni dopo il boom aziendale raggiunto con la pandemia (purtroppo per le fortune di qualche grande gruppo capitalistico non è sempre tempo di emergenze pandemiche…), la ricetta è sempre la solita: taglio del 13% della forza lavoro e benservito per oltre 11mila dipendenti.
La solita, amara, solfa del capitalismo, si potrebbe osservare: i lavoratori che hanno costruito i successi dell’azienda sono i primi ad essere scaricati quando l’azienda registra meno successi o ha nuovi piani di espansione (resi possibili dai successi precedenti e dall’impiego precedente della forza lavoro poi diventata in esubero). Puntuale anche il resto dell’aberrante copione capitalistico: Meta, «dopo l’annuncio di 11mila licenziamenti, pari al 13% del personale, viene premiata in borsa: +6% oggi» (Rai News, 9 novembre). L’utilizzo però di certe “nuove” parole da parte del miliardario del presunto post-capitalismo merita una riflessione. Ancora una volta, nulla di veramente nuovo: da sempre gli esponenti della classe dominante e i loro servi ideologici si ingegnano per sfornare termini, formule, neologismi per dipingere il loro dominio come accettabile, benevolo, persino naturale, il migliore dei mondi possibili. Certo è che questa volta la creatività espressa in questa operazione ha raggiunto livelli non scontati di spregiudicatezza e impudicizia. I lavoratori dipendenti licenziati diventano valorosi teammates (compagni di squadra) e l’atto del loro licenziamento è incredibilmente riassunto in questa formula: è stata presa la difficile decisione di lasciare andare via le persone («the hard decision to let people go»). Insomma, il padrone avrebbe nient’altro che benignamente assecondato un anelito di nuove esperienze al di fuori dell’azienda, già insito nei suoi adorati dipendenti. Autoassolutorio in questo caso è un eufemismo. Colpisce anche come, fianco a fianco con queste espressioni così liriche, incorporee e soavi, convivano richiami assai diretti ad una realtà aziendale molto concreta, persino prosaica. Si pensi all’evocato piano di condivisione delle scrivanie… La questione in generale non è riducibile alla contrapposizione tra il reale capitalistico e la turlupinatura linguistica con cui costantemente questa realtà si accompagna. L’uso e l’imposizione nell’utilizzo corrente di determinate parole ed espressioni riflette la condizione di forza tra classi. Basti pensare a come termini quali “padronato” o “lavoratori subordinati” siano sempre più sfumati nella pubblicistica corrente, nelle formule televisive e in generale massmediatiche (non parliamo neanche di espressioni rigorose e precise come “classe”, “proletariato” o “capitalista”, tacciate ormai ritualmente di passatismo, di sterile nostalgia per rapporti sociali ormai superati, in realtà superati nella dimensione ideologica imposta dai rapporti di forza capitalistici e non certo nella realtà della società capitalistica). Gli Zuckerberg, gli Elon Musk o i Jeff Bezos, i vertici delle holding finanziarie che controllano interi rami industriali e commerciali sono meno “padronato” di un tempo? Difficile davvero da sostenere. Hanno semmai la forza oggi per rappresentare sé stessi e le proprie azioni padronali in altre e più tenere formule (tanto tenere nella forma quanto durissime nella funzione di tutela della propria condizione di dominio sociale). Ma i rapporti di forza cambiano e cambieranno. Verrà il momento in cui i “compagni di squadra” sfruttati, spremuti e poi licenziati, costretti a vivere come merce umana nel mercato capitalistico che mercifica ogni aspetto della vita umana, “lasceranno” che i padroni e il capitale, loro divinità, possano andare via dalla vita collettiva del genere umano.