Barricate a Parma: cento anni da una battaglia proletaria che merita una riflessione sfrondata dal mito
Ai primi di agosto hanno raggiunto il culmine le iniziative tenutesi a Parma per celebrare il centenario delle barricate che fermarono le squadre fasciste di Italo Balbo. Quegli eventi sono ancora molto sentiti tra la popolazione dei quartieri parmigiani che allora furono il fulcro della lotta al fascismo. Data anche questa tenace memoria diffusa, non potevano mancare agli appuntamenti in vista della ricorrenza le presenze e gli interventi delle autorità, delle istituzioni, delle burocrazie sindacali che hanno più e più volte dimostrato di condividere assai poco della combattività proletaria che animò il nerbo della difesa popolare di Parma. A luglio le «conclusioni» di un convegno storico sono state affidate al segretario generale della Cgil Maurizio Landini (la Repubblica-edizione Parma, 18 luglio). Una mostra è stata «presentata in conferenza stampa alla presenza» del presidente di Fondazione Cariparma e del sindaco della città (Parma Today, 19 settembre).
È evidente che una riflessione militante che intenda andare al cuore delle profonde, contraddittorie lezioni dei fatti di Parma non può affidarsi a queste rievocazioni istituzionali. Intorno alle barricate di Parma e agli Arditi del Popolo che formarono uno dei principali nuclei organizzati della mobilitazione che le eresse e le difese, aleggiano interpretazioni semplicistiche, dalla funzione riduttiva e politicamente non certo innocente (le barricate del 1922 come prologo e anticipazione della lotta partigiana vent’anni dopo, sorvolando su tutti gli sviluppi e i mutamenti intercorsi nelle condizioni sociali, dei rapporti di classe, nelle prospettive politiche italiane e internazionali), e miti. Alcuni di questi hanno conosciuto recenti momenti di rivitalizzazione. Basti pensare alla circolazione, non senza plausi e consensi, della rappresentazione degli Arditi del Popolo come fenomeno potenzialmente in grado di abbattere l’offensiva borghese strutturatasi nello squadrismo fascista e che le rigidità dottrinarie, la miopia classista di soggetti politici come il Partito comunista d’Italia avrebbero boicottato, impedendo la vittoria della riscossa antifascista (la cui energia salvifica sarebbe dovuta passare attraverso la “liberazione” da ogni connotazione e politica di classe, da subordinare pragmaticamente all’imperativo della sconfitta di un fascismo evidentemente slegato da quelle che sono state invece le sue determinanti connessioni con lo Stato borghese e con il divenire dei rapporti e degli orientamenti in seno alla borghesia italiana). Non ignoriamo la complessità e l’importanza della funzione politica che può rivestire il mito. Ma la formazione dei militanti rivoluzionari deve andare oltre il mito, deve tendere a capirne le radici e le implicazioni.
La battaglia di allora, sostenuta in prima fila dal proletariato dei quartieri Oltretorrente, Naviglio e Saffi, ci dice quanta eroica abnegazione, quanto generoso slancio poteva ancora esprimere, in particolari situazioni, una classe operaia già entrata nella fase di declino di un grande ciclo di lotte, mai però giunto veramente a minacciare i gangli vitali dell’ordinamento capitalistico. Ci dice quali risultati poteva raggiungere una mobilitazione socialmente composita generata dalla spinta del proletariato e da esso diretta contro uno squadrismo fascista privo, nel caso specifico, del diretto e risolutivo fiancheggiamento delle forze dello Stato. Ma queste condizioni erano davvero riproducibili su ampia scala, sul piano nazionale, nell’agosto 1922? Una spinta proletaria già in fase di chiaro arretramento poteva ancora costituire il perno di un’azione volta a colpire al cuore il processo di strutturazione di una specifica forma della dittatura capitalistica? Questa decrescente forza proletaria poteva costituire l’ossatura di un tentativo di intervenire violentemente negli equilibri e nelle dinamiche della classe avversa, indirizzando questa ridefinizione del potere borghese in una direzione sostanzialmente alternativa al consolidamento della forma fascista? E che significato e valenza avrebbe potuto rivestire questo ipotetico esito rispetto alle condizioni e alle prospettive dei rapporti di forza e della lotta tra classi? Di questa portata sono le domande che i fatti di Parma sollevano ad una riflessione politica di classe, che oggi si rivolge a quei tornanti storici per trarne elementi e materiali per una crescita di consapevolezza rivolta alle lotte future. Non è casuale, in relazione all’attuale fase storica con i suoi specifici rapporti di forza tra classi, né è in questo senso privo di significato politico, che oggi la memoria della lotta guidata dalla classe operaia di Parma tenda ad essere confinata nel recinto della difesa della democrazia borghese, nello schema dell’unica alternativa e contrapposizione tra fascismo e antifascismo, fermo restando l’indiscutibile accettazione della base strutturale capitalistica su cui questo antagonismo deve svolgersi. Il ricordo, la celebrazione e la memoria, ancora molto sentita nel quartiere Oltretorrente, è oggi con particolare forza ricondotta ad un quadro ideologico in cui è marginalizzato o addirittura espulso il fattore fondamentale dello scontro di interessi di classe, la realtà del concretizzarsi della parabola del fascismo all’interno degli sviluppi del rapporto tra questi interessi. Le barricate vittoriose contro lo squadrismo rappresentano un capitolo, estremamente importante e contraddistinto da rilevanti, specifici caratteri storici, della storia della classe lavoratrice dell’Oltretorrente e dei borghi limitrofi. Una storia di lotta di classe contro l’oppressione capitalistica che non è iniziata con il fascismo, basti pensare alle proteste contro le imprese coloniali, agli scioperi e alle agitazioni dei primi anni del Novecento. Le barricate di Parma costituiscono un’importante lezione, un prezioso e complesso lascito politico solo se collocate e comprese nel divenire storico della lotta tra classi. Se celebrate al di fuori di questa reale e determinante dimensione, diventano immagini retoriche, rielaborazioni ideologiche, apporti, anch’essi a modo loro reali, alla difesa di una società borghese che può, all’occorrenza e in presenza di determinate condizioni storiche, svestire la camicia nera e le forme apertamente dittatoriali per adottare le regole, i dogmi e le liturgie della democrazia del capitale.
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