Regressione
C’è oltre un secolo di storia di dibattiti nel movimento operaio sul rapporto tra lotta, emancipazione di classe e rappresentanza parlamentare, partecipazione al voto.
Ma questo non interessa a Repubblica.
Affrontando il tema dell’astensionismo (“L’evaporazione della politica”, 20 settembre), il giornale di riferimento dell’ala sinistra della borghesia italiana va giù piatto.
Espletati i richiami di rito alla partecipazione al voto ormai da tempo orfana delle grandi idealità e delle forti appartenenze ideologico-partitiche, la polpa del ragionamento è presto servita:
«la bolla astensionista non è un partito, ma una inclinazione pericolosa del nostro tempo che riflette la caratterizzazione più estrema dell’individualismo ipermoderno, il quale, negando ogni forma di debito simbolico, ritiene che tutto ciò che non riguardi direttamente il mio Io e la sua corte di interessi più immediati non abbia alcun valore».
E ancora:
«Astenersi è quasi sempre una reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo caso lo sguardo dell’astensionista resta sempre narcisisticamente rivolto al proprio ombelico».
Insomma, chi non partecipa alla conta elettorale – oggi forse come non mai racchiusa in un meccanismo di registrazione di rapporti di forza del tutto interno al gioco tra frazioni borghesi, saldamente inscritta nella conservazione del regime capitalistico e della tutela degli interessi delle varie componenti della classe dominante – esprimerebbe solo una forma di regressione sul piano psichico. È una manifestazione psicopatologica.
Il bello, si fa per dire, è che al fondo di questa diagnosi, di questa sentenza tanto perentoria e saccente quanto inconsistente e superficiale, risiede un concetto di società di una desolante pochezza. Il narcisistico soggetto infantilizzato che non vota si chiamerebbe fuori dalla condivisa gestione di una polis che non conosce oggettiva lacerazione tra interessi sociali ed economici, si estranierebbe da una scelta tra offerte elettorali dietro cui non ci sono interessi di classe, differenti, conflittuali, contraddittori, non ci sono logiche e dinamiche determinate dalla dominazione e dalla subordinazione di classe. È il suo «individualismo ipermoderno» a renderlo insensibile alla ricerca di un possibile e unificante bene comune attorno al quale la polis può riconoscersi. Che il rifiuto del voto possa anche essere un fenomeno che riguarda reali contraddizioni tra i meccanismi della rappresentanza all’interno delle attuali società capitalistiche e oggettive condizioni sociali non modificabili da alcun intervento prodotto dai poteri espressi da queste formazioni sociali non è nemmeno contemplato nella lezione di educazione civica offerta da Repubblica. Che il processo elettorale, il sistema della rappresentanza democratica possa risultare estraneo e magari anche ostile perché, realmente, attraverso questo processo e questa rappresentanza si esprime, oggi con capacità totalizzante, una forza sociale estranea ed ostile, non è evidentemente un elemento da prendere in considerazione. È sufficiente pontificare e scomunicare dal pulpito eretto ancora, gratta gratta, sull’apologo di Menenio Agrippa («l’insulsa favola» la definì Marx).
Pagina dopo pagina, editoriale dopo editoriale, le conferme si stanno susseguendo anche in campagna elettorale: è ormai svanita anche l’ombra di quella dimensione culturale, di quella levatura intellettuale, con cui si era definita un tempo questa centrale ideologica dell’opportunismo italiano. Le grandi narrazioni mistificatrici della classe operaia italiana, con i loro ampi e suadenti arsenali di un pensiero critico entro i confini della conservazione capitalistica, sapientemente funzionale ad essa, sono ormai lontane. Rimane la presunzione di una superiorità antropologica tutta da dimostrare. A essere generosi, e anche troppo.
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