LORO E NOI - 12/08/2022
 
Strumentale

Di fronte a certi fatti, certi esiti sociali, frutto anche del loro operato, certi cantori dell’odio tra etnie, tra nazionalità, certi propagandisti della divisione tra sfruttati (che fa sempre molto comodo alla tenuta del potere degli sfruttatori) sono comprensibilmente un po’ a disagio. Non certo per scrupoli morali o in ragione di ripensamenti circa il (dis)valore sociale della loro funzione. Il rischio che intravedono è quello di un ritorno di fiamma, di dover pagare uno scotto, di dover subire una diffusa riprovazione mentre puntavano, da demagoghi quali sono, ad ottenere facili consensi e un lucroso piedistallo – costruito sul plauso e l’alimentazione dei peggiori istinti di masse diseducate alla lotta di classe – per la loro corsa a poltrone e rendite di posizione. E così, di fronte ad un sottoproletario africano ammazzato a mani nude sulla pubblica via di una città italiana, nella sostanziale indifferenza dei passanti, si riscoprono cultori della neuropsichiatria, rigorosamente declinata sul singolo individuo, slegata da ogni fattore collettivo, politico e sociale (tanta attenzione alle diagnosi cliniche non si riscontra ovviamente quando l’aggressore è povero e immigrato e può fornire fieno per la lurida cascina della loro propaganda).
Ma anche il passato, la memoria della classe operaia e dei suoi drammi sull’orizzonte internazionale dello sfruttamento capitalistico può dar fastidio. Ecco, quindi, Giorgia Meloni in persona intervenire con una vibrante lettera aperta al Corriere della Sera (8 agosto) a proposito della ricorrenza della tragedia proletaria della miniera di Marcinelle, lesta a mettere i puntini sulle i. Il rischio effettivamente è grosso: finire per pensare, riflettere su quella continuità storica di discriminazione, di oppressione di classe, che si è abbattuta e ancora si abbatte anche sui lavoratori italiani, non solo sul “nemico” immigrato. Il rischio è grosso e difatti la reazione è pronta: bisogna tracciare un vistoso solco nazionale tra il minatore sfruttato e ammazzato in Belgio oltre mezzo secolo fa e il bracciante, il muratore, il facchino straniero di oggi, discriminato, sfruttato e ucciso come lo furono e non di rado ancora sono i proletari italiani. Guai se la solidarietà di classe tra sfruttati dovesse mai subentrare a quella divisione per nazione e colore della pelle che tanto bene ha fatto e fa ai padroni! La leader nazionalista, con il vento in poppa nei sondaggi, intende smascherare le «comparazioni forzate e strumentali», la «retorica di parte» (che alligna sempre e solo nelle altre parti). In verità l’armamentario della beniamina dei consensi elettorali di oggi non è né particolarmente approfondito né particolarmente nuovo. In mezzo a evocazioni come quelle delle «Ong ideologizzate» (l’immensamente deprecata “ideologia” è sempre e solo in casa d’altri), lo sfruttamento dei capitalisti italiani si riduce alla sbrigativa menzione di «pseudo-imprenditori» (uno “pseudo” che non ha alcun senso in termini di analisi e ricostruzione della realtà ma che torna assai utile nel confermare l’autentica fedeltà sociale a quella borghesia italiana a cui fa devoto riferimento anche l’opposto fronte elettorale). Ma il piatto forte è sfornato verso la fine della fervida missiva, quando si chiamano in causa gli immigrati «in età da lavoro» che, accampando «presunti diritti», se la spassano pigramente meglio di «molti nostri anziani», con le loro magre pensioni. Peccato che i lavoratori italiani hanno spesso pensioni da fame grazie alla borghesia italiana e alla sua classe politica, di cui la Meloni, insediatasi tra le istituzioni dello Stato fin dalla più tenera età, è esponente e corresponsabile a pieno titolo. Non si può nascondere che l’utilizzo ideologico (in senso proprio e concettualmente più profondo) della tragedia operaia di Marcinelle per continuare a suonare la grancassa della divisione tra proletari, per proseguire nell’opera attuale di indebolimento della classe operaia e nel suo asservimento dietro il paravento tricolore, possa suscitare un certo disgusto e dare la sensazione che, considerata la pochezza dell’utilizzo della drammatica grandezza dell’epopea di classe che quell’evento storico richiama, difficilmente un altro esponente di primo piano della politica borghese italiana potrebbe uguagliare questo grado di bassezza. Ma sarebbe un errore. L’infame primato è in condivisione. Basta leggere, sul Corriere del giorno prima, la chiave di lettura, accuratamente scevra da ogni pur blando riferimento alle classi e alla lotta di classe e opportunamente condita con la salsa borghese dell’europeismo, offerta da Enrico Letta, leader di quel partito e di quella sinistra padronale che tanti colpi ha sferrato alla classe lavoratrice italiana (basti pensare, per limitarsi ad uno dei casi più emblematici, al Jobs Act). Il ricordo più autentico, la memoria più viva e storicamente feconda dei morti proletari di Marcinelle risiede nella coscienza, nelle lotte dei lavoratori di oggi e di domani. Non negli interessati e infidi panegirici, nelle squallide diatribe tra agenti del capitale, tra politici incaricati, ognuno con la sua specifica attitudine, di torchiare la classe in questo sistema condannata – a qualsiasi nazionalità appartenga e con qualsiasi colore della pelle – alla schiavitù salariata.