LORO E NOI - 11/06/2022
 
La ricostruzione storica di Confindustria

«Se le riforme che oggi si stanno facendo relative al Pnrr fossero state fatte trent’anni fa, probabilmente noi oggi ci saremmo trovati nella stessa condizione della Germania, che all’inizio degli anni 2000 era a un livello più basso dell’Italia. Poi il cancelliere Schröder ebbe la forza, pagandola politicamente, di fare delle riforme molto impopolari e la Germania è volata mentre noi siamo rimasti indietro».
Così il vice presidente di Confindustria con delega al lavoro e alle relazioni industriali, Maurizio Stirpe, intervistato da Il Messaggero del 5 giugno, a proposito della questione salariale in Italia.
Riforma è una parola che viene spesso utilizzata perché conserva un significato positivo, esprime un senso di progresso, di avanzamento, di miglioramento (un discorso analogo vale per la parola “rivoluzione”). Viene così impiegata per rivestire di questo alone progressivo anche i provvedimenti volti a sancire i più aspri regressi sociali. Non abbiamo dubbi che un domani persino proposte volte a imporre giornate lavorative di quattordici ore o l’incatenamento degli operai ai macchinari verrebbero gratificate del termine di “riforme”.
Nel merito, il curioso della spiccia ricostruzione storica del dirigente confindustriale non è tanto nell’infatuazione per l’ex cancelliere socialdemocratico Schröder (giustamente tributato in patria del titolo di “Genosse der Bosse”, compagno dei padroni, che ha “pagato politicamente” il suo coraggio al soldo della borghesia finendo lobbista a peso d’oro per i giganti russi dell’energia…) ma nello strabiliante oblio a cui ha consegnato decenni di “riforme” che si sono abbattute sulla condizione proletaria in Italia: dal pacchetto Treu alla fine degli anni ‘90 al Jobs Act, dalla sfrenata precarizzazione del lavoro al sistematico smembramento del sistema previdenziale dei lavoratori, proseguiti dai primi anni Duemila con i Governi di tutte le tinte della tavolozza politica della borghesia.
Tutto questo non è mai esistito. Se oggi i salari italiani sono fermi da anni e anni, tra i più bassi d’Europa, è perché l’assenza di “riforme” non ha consentito quell’incremento di produttività senza il quale ogni aumento salariale è – legge indiscutibile dello stato di natura capitalistico – impossibile e impensabile. Insomma, non è vero che per decenni i padroni in Italia hanno potuto reggere la concorrenza e macinare i profitti grazie a livelli salariali scandalosamente bassi, legati anche alla diffusione – complice una classe politica legata mani e piedi agli interessi padronali – di forme di lavoro precarie e ricattabili. No. Il problema è che in Italia sono mancate le riforme «impopolari» (cioè volte a torchiare sistematicamente, così come vuole la natura del capitalismo, la classe lavoratrice) e «noi» (curioso utilizzo della prima persona plurale) «siamo rimasti indietro».
È sempre sorprendente constatare il livello di spudoratezza con cui la classe dominante, disponendo della forza materiale derivante dalla sua posizione nei rapporti sociali, può deformare, distorcere, occultare, capovolgere la realtà storica, fabbricandone e smerciandone versioni incredibilmente false, ma utili alla bisogna.
Attenti operai e operaie, proletari di ogni settore e ramo d’industria, lavoratori sempre più precari o in pensione dopo una vita di sfruttamento, siete scampati per decenni alle dolorose, doverose e «impopolari» riforme, ma adesso basta! Deve venire anche per voi, per troppo tempo privilegiati, il momento delle lacrime e sangue nel nome del “bene comune” dei padroni. Parola di Confindustria.