LORO E NOI - 11/02/2022
 
Campi di concentramento italiani

Antonio Scurati sul Corriere della Sera (22 gennaio, «Libia, il crimine rimosso») ricorda che quando si parla di campi di concentramento la nostra mente ci porta inevitabilmente ai crimini del nazismo, alla persecuzione degli ebrei, all'Olocausto.
Pochi sanno, o fingono di non sapere, che ben prima dell'orrore nazista a costruire luoghi di concentrazione e sterminio furono gli italiani nelle colonie sottoposte al loro dominio. «La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento», con questa frase, nel 1930, l'allora ministro delle Colonie dell'Italia fascista, Emilio De Bono, comunica al governatore delle colonie libiche, Pietro Badoglio, la necessità di procedere ad una deportazione di massa per piegare la resistenza dei guerriglieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtar.
Fu una scelta avvallata da tutte le massime cariche politiche dell'epoca che portò alla creazione di campi di concentramento in cui vennero deportate più di 100 mila persone. «Alcune di queste morirono prima di raggiungere i campi, sfinite dalle estenuanti marce che potevano superare le centinaia di chilometri, ma la maggior parte, circa 50 mila morì proprio a opera del sistema detentivo, uccisa dall'inedia, dal tifo petecchiale, dalla dissenteria, dalla malaria, dallo scorbuto e varie setticemie, per non parlare delle sevizie quotidiane e le esecuzioni esemplari».
Si tratta di una delle tante pagine oscure e dimenticate della storia italiana, una pagina la cui rimozione contribuisce a plasmare quel clima autoassolutorio di indifferenza e crudeltà verso le vicine popolazioni africane che, nella continuità storica, caratterizza ancora oggi l'imperialismo di casa nostra.