LORO E NOI - 19/01/2022
 
Una notte da padroni

Quello che è successo nella notte di Capodanno in piazza del Duomo a Milano è vergognoso.
Ragazze uscite di casa per passare qualche ora di svago e finite aggredite, pesantemente molestate da gruppi di giovani divenuti branco.
Che una donna, un giovane, un anziano, un essere umano, non possa camminare, riunirsi, incontrare amici e amiche senza temere di diventare vittima di accozzaglie di aggressori, mossi dalla ricerca di soldi e da voglie di sopraffazione, è qualcosa di aberrante.
Ma se si vuole veramente affrontare l’aberrazione, contrastarla, operare per superarla, bisogna andare alle radici.
E non va alle radici la desolante, caricaturale, alienante, dicotomia tra un inerte sociologismo deresponsabilizzante (in realtà spesso più evocato come alternativa di comodo, come bersaglio di un riduzionismo polemico, che presente come effettiva componente di un dibattito, come opzione concretamente avanzata nella ricerca di risposte al problema) e l’invocazione del pugno di ferro quale unica, sbrigativa, soluzione, alternativa e fieramente incompatibile rispetto ad ogni sforzo di indagine di reali e significativi presupposti sociali di comportamenti brutali e degradanti. Pugno di ferro tanto più sbrigativo e accattivante (anche in termini di consenso politico) se prefigurabile su categorie, figure, spazi già ampiamente percepiti dall’opinione pubblica e da consistenti quote dell’elettorato come un pericolo, un’umanità estranea, minacciosa e residuale. Da questo punto di vista, il fatto che gli aggressori di piazza del Duomo risultino, almeno in buona parte, giovani di origine immigrata, può costituire una manna per quei politicanti avvezzi a costruire le proprie fortune sulle paure e sui risentimenti generati da condizioni e contraddizioni che essi stessi accettano e contribuiscono a perpetuare.
La stampa ha scavato nel retroterra dei primi identificati tra i responsabili delle vigliacche aggressioni e ne è scaturito un quadro ormai ricorrente in un certo tipo di condotta aggressiva di bande giovanili provenienti da aree disagiate. Senza per questo ignorare le periodiche efferatezze, le prepotenti dimostrazioni di forza e impunità dei figli della buona borghesia, anch’essi, a loro modo e con i loro specifici disvalori, testimoni di un degrado, di una angoscia della condizione umana nel capitalismo, per quanto destinati ad un ben diverso stigma sociale. Dietro il branco di piazza del Duomo sono emerse storie di estreme periferie, ogni volta ricacciate sempre più lontano dalla città di chi non vive di solo pane, storie di padri, operai immigrati che si spezzano la schiena da mattino a sera per poter sostenere la famiglia, storie di manovali a giornata, di fabbrica e cantiere, di pizze nel cartone e affitti da pagare (la Repubblica, edizione online 13 gennaio).
Sono storie proletarie, storie della nostra classe, va detto con tutta la dolorosa consapevolezza della ripugnante gravità delle violenze commesse da chi da questa realtà oggettivamente proviene. Ma la condizione di classe, in casi come questo, non ci spinge assolutamente verso l’altalena, sospesa tra imbarazzo e indecifrabilità del dato reale, di una reticenza che può diventare addirittura disconoscimento di una oggettiva condivisione di caratteri sociali, negazione di contraddizioni profonde e potenti, rielaborate e sviluppatesi nel peggiore dei modi. Semmai ci interroga. Ci interroga su cosa manca, su cosa è mancato, perché nell’esperienza di vita proletaria da parte di giovani proletari l’identità di classe abbia potuto così irrefrenabilmente lasciare il posto al branco. Non è un caso che tra i ragionamenti più interessanti e articolati figurino quelli espressi da una millenaria entità di potere, educata ad un’antica sapienza di forza conservatrice radicata nella società. Il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano ha offerto un abbozzo, sintetico ma solido, della parabola di ragazzi dalle condizioni simili a quelle degli aggressori di Capodanno: «Non vogliono essere diversi dai coetanei. Il confronto arriva a scuola, quando iniziano a capire di avere meno. Quello che non ottengo, se lo prendono con la violenza. La disuguaglianza sociale per loro è insopportabile, e di questo accusano i loro genitori, che pure hanno fatto sacrifici, lavorano e sono integrati, ma guadagnano poco» (la Repubblica, edizione di Milano online, 10 gennaio).
Don Claudio Burgio indica la sua risposta: «Dobbiamo investire in educazione».
Persino su questo potremmo in prima battuta convenire, a patto di fare chiarezza sul significato di “educazione”. E pensiamo proprio che, fatti i dovuti chiarimenti e distinguo, la Chiesa non potrebbe che dissociarsi dalla nostra concezione.
Cresciuti in una società del profitto, della mercificazione, senza alternative sociali al culto dell’ “avere” per “essere”, perché questi ragazzi non dovrebbero vivere con frustrazione, rabbia, risentimento, la scoperta che le meraviglie del mercato, i trionfi dell’individualismo, i successi del capitalismo, la cui celebrazione è bombardamento quotidiano, non è roba per loro?
Nello strapotere ultradecennale di una narrazione di massa del capitalismo come unico orizzonte umano, come stato di natura dell’uomo, a quale altra scala di valori, effettiva, concreta, dovrebbero fare riferimento?
Alla Chiesa e alle sue pratiche di volontariato?
Una Chiesa che si è sempre più adeguata, appiattita sulla realtà capitalistica, accucciandosi nel cantuccio di una liberazione interiore che non disturbi i meccanismi, le leggi e le esigenze del capitale?
Un volontariato che non può che tradursi in stampella di un sistema che necessita di un contrappunto pietistico per continuare a vivere nella sua ferocia?
All’universo residuale delle, un tempo grandi, organizzazioni politiche di sinistra e sindacali? Quelle formazioni che hanno vissuto la desertificazione di decenni di stagnazione della lotta di classe e di esaltazione onnipresente dei dogmi del mercato, della fine delle classi, del nuovismo costituito dalla subalternità più umiliante agli imperativi del capitale, al punto da introiettare ormai nell’intimo il credo e persino i miti del dichiarato nemico di classe di un tempo?
Alle oggi baldanzose destre più o meno sociali? Quelle oscure ma sempre più sfacciate presenze per cui la lotta per la giustizia sociale passa regolarmente per la guerra tra sfruttati (puntualmente suddivisi per etnia, religione, nazionalità) e per cui l’invettiva “anticapitalista” è oculata pratica di rito che non disturba mai il dominio capitalistico?
Nel deserto sociale del trionfo capitalistico, per i giovani delle periferie proletarie che vivono la «disuguaglianza sociale» come «insopportabile» ci sono, in definitiva, solo due strade: piegare la testa, rassegnarsi e accettare infine questa “legge di natura” (magari confinandosi in vario modo nell’altrove di mondi virtuali) o reagire in qualche modo.
Ma senza un barlume di coscienza di classe, senza uno straccio di punto di riferimento che indichi la via di uscita dalla logica stessa della mercificazione dell’esistenza umana, senza poter sperimentare la capacità della lotta di classe di forgiare valori e significati opposti a quelli che li schiacciano e avviliscono, quale reazione potranno mai esprimere?
Solo il sussulto predatorio del marginale, che rimane marginale, come prima e più di prima, vomitando una violenza che è la sanzione ulteriore di una sudditanza, di una passività nei confronti di un sistema mai affrontato, mai compreso, mai messo in discussione.
La violenza, insieme distruttiva e autodistruttiva, dei branchi di giovani figli del proletariato, le subculture (prodotto comunque della supremazia dell’ideologia della classe dominante) che ne favoriscono la nascita e la capacità di attrazione, costituiscono una testimonianza ancora, particolarmente amara e dolorosa, della misura sociale, vastissima e disumanizzante, del trionfo capitalistico anche sulle menti e i cuori di settori di giovani della nostra classe. Sono un’ulteriore conferma della debolezza di tutto ciò che si connette, che si richiama al marxismo e alla lotta di classe, della nostra debolezza. Ma sono anche un aspro richiamo all’urgenza, all’importanza, alla poderosa necessità storica del nostro lavoro politico.
I figli del proletariato, della periferia emarginata, della precarietà che non consente di essere nulla nel mondo del capitale, possono scendere in piazza, popolare le strade, calare sulle città, solo o come merci o come barbari senza futuro o come protagonisti della lotta di classe.