Principi e cannibali
Les rois nous saoulaient de fumées
Paix entre nous, guerre aux tyrans
Appliquons la grève aux armées
Crosse en l'air, et rompons les rangs
S'ils s'obstinent, ces cannibales
A faire de nous des héros
Ils sauront bientôt que nos balles
Sont pour nos propres généraux.
I re ci hanno ubriacato di fumo
Pace tra noi, guerra ai tiranni!
Applichiamo lo sciopero agli eserciti,
fucili abbassati e rompiamo i ranghi!
Se si ostinano, questi cannibali
A far di noi degli eroi
Sapranno presto che le nostre pallottole
Sono per i nostri stessi generali!
(Strofa de L'Internationale, testo di Eugène Pottier).
Il tempo passa rispetto alle ultime, vaste, durature lotte operaie in Italia.
Il tempo è passato e ha profondamente indebolito la coscienza di classe, le organizzazioni di classe, la capacità della nostra classe di premere sull’insieme della società, sollecitando un diffuso senso critico e una vitalità culturale e politica.
Tanto in basso è scesa questa preziosa capacità proletaria che tornano in auge, su un tema come la Grande Guerra (e non solo sui fogli grevi della piccola borghesia incattivita e apertamente sciovinista come
Libero ma anche sulle pagine dei giornaloni della borghesia “illuminata”, europeista e internazionalizzata), le brodaglie retoriche che pretendono di ristabilire la verità storica contro quelle che si ha l’impudenza di definire vulgate, letture fuorvianti, strumentali e ideologizzate («Il “Principe della Guerra” e il “duca della Vittoria”: Cadorna, Diaz e la Caporetto italiana»,
La Stampa, edizione online
3 novembre).
La “verità” (che si vuole spacciare come nuova ed “eretica” riscoperta dell’autentico fatto storico) è che la guerra dell’imperialismo italiano è stata talmente cosa buona e giusta da affrettare la fine dell’immane macello (ecco l‘ennesima guerra buona che fa finire la guerra, non prima di aver rimpinguato i portafogli dei capitalisti e riempito di lutti e mutilati le famiglie proletarie, ma su questi curiosi e differenti contraccolpi sociali della “buona” guerra nell’articolo riabilitatore viene mantenuto un cauto riserbo ).
La “verità” è che i fucilati sono stati in fin dei conti pochi e strumentalmente sbandierati da taluni ambiti culturali e politici accecati e imbevuti di ideologia. Il riabilitatore del generale Cadorna e della guerra patriottica infangata troppo a lungo da storici sinistrorsi e cineasti «dichiaratamente» antimilitaristi (colpa non da poco di questi tempi…) ci ricorda che le – numericamente irrilevanti - fucilazioni «
furono comminate dai tribunali militari, non solo per diserzione e ammutinamento, ma anche per crimini comuni».
Senza dimenticare che occorre «
considerare, infatti, al di là dei conati emotivi, che le insubordinazioni e le diserzioni avrebbero potuto compromettere la sopravvivenza dell’intera macchina militare italiana: quindi, facendo salva la pietà umana, non è corretto giudicare con la sensibilità odierna quel particolare ed emergenziale contesto storico né tantomeno, senza la consapevolezza tecnico-militare necessaria».
Quanta scrupolosa legalità, quale nobile cultura giuridica, unite, per di più, ad un sano e umano pragmatismo (ovviamente, tutto questo, puro da ogni contaminazione ideologica). Chissà quanta «
pietà umana» albergava nel generale Andrea Graziani, fiero delle sue fucilazioni sommarie, capace di far passare per le armi sul posto un soldato reo di averlo salutato senza togliersi il sigaro di bocca. Chissà quanta ne custodivano i plotoni di carabinieri incaricati di sparare alla schiena ai soldati restii a diventare carne da macello. Sicuramente abbondava di «
pietà umana», fosse solo per dovere professionale, padre Agostino Gemelli, confidente di Cadorna, che metteva giù in bella prosa il programma per annichilire la personalità del soldato, rendendolo docile strumento dei suoi superiori e della macchina militare. Ma il fenomeno della “giustizia” sommaria (così come quello del terribile regime carcerario riservato ai condannati a pene detentive, specialmente se
“sovversivi”, dei reparti punitivi, dei prigionieri italiani abbandonati in condizioni di stenti dai propri governanti in quanto sospettati di tradimento o diserzione) è stranamente latitante nel pezzo ma, lo immaginiamo, non si può menzionare tutto in un necessariamente succinto articoletto riabilitatore. Il punto però in cui l’articolo lascia davvero sconcertati e senza parole è laddove si slancia in un formidabile sillogismo. Un ragionamento con cui togliere una volta per tutte il terreno da sotto i piedi a tutti gli storici ideologizzati, ai cultori della vulgata contraria alla verità di un Paese unito e compatto dietro ai suoi capi militari, loro malgrado e con supremo senso di responsabilità, chiamati a scelte dolorose ma necessarie per il bene di tutti gli italiani, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza.
Nel 1925, ci ragguaglia il paladino della lotta ai cliché antistorici e politicamente orientati, «
ad appena dieci anni dall’inizio della Grande Guerra, il popolo italiano riabilitò Cadorna tributandogli grandi acclamazioni, come raccontava il Corriere della Sera. Cadorna e Diaz furono rispettivamente definiti “il Principe della Guerra e il duca della Vittoria”. Eppure, erano tempi in cui madri, mogli, sorelle ancora piangevano i loro cari caduti. Tempi in cui i moncherini dei mutilati ancora sanguinavano e, per paradosso, fu proprio il Grande Mutilato Carlo Delcroix che ottenne la piena riabilitazione di Cadorna, con la nomina il 6 giugno 1925 a Maresciallo d’Italia (il più alto grado militare dell’epoca), insieme a Diaz. Eppure, Delcroix, come pochi, avrebbe avuto tutti i motivi per maledire la guerra dopo aver lasciato occhi, mani e altri pezzi del suo corpo sul campo di battaglia».
Se con questo perentorio sillogismo non si cercasse di manipolare e camuffare un dramma epocale e una tragedia innanzitutto proletaria, ci sarebbe perfino da sorridere. Se Cadorna è stato così “cattivo”, se la guerra è stata così lacerante e aborrita da gran parte della popolazione italiana, come mai il generalissimo, quando i moncherini ancora sanguinavano e i lutti erano recenti, ha conosciuto un’apoteosi? I solenni encomi, le celebrazioni patriottiche, riconoscimenti e titoli nobiliari dispensati agli alti comandi coram populo nel 1925 attesterebbero, quindi, senza ombra di dubbio il consenso delle masse popolari verso la guerra e i suoi condottieri.
È persino imbarazzante ricordare, a fronte di questa incredibile argomentazione, come nel quadro politico italiano, tra il 1919 e il 1925, qualcosa di non poco conto sia accaduto. L’interpretazione della guerra come fulgida impresa patriottica, e in essa la celebrazione dei “principi della guerra”, fu possibile solo sulla base della sconfitta, della rimozione violenta di un’altra interpretazione. Fu possibile sulle macerie delle Case del Popolo distrutte dagli squadristi con la complicità dei poteri dello Stato liberale, sulle rovine delle sezioni e dei circoli dei partiti proletari, sui frammenti dei monumenti costruiti dal movimento operaio e socialista contro la guerra del capitale, sulle ceneri della Lega proletaria dei reduci e dei mutilati di guerra. Fu possibile solo dopo aver bastonato, perseguitato, imprigionato e ucciso innumerevoli militanti proletari, spesso reduci, dopo aver messo a tacere le donne della classe operaia e contadina che rivendicavano e conservavano ben
altro ricordo, ben altra lettura, della guerra e dei suoi “principi”.
In questo ritorno in forze di vecchi miti reazionari, nel miasma che inevitabilmente li accompagna, è salutare trovare una boccata di aria pulita, come quella che arriva dalla notizia (
Il Giornale di Vicenza,
6 novembre) che a Magrè di Schio, su iniziativa dello storico Ugo De Grandis, è stata ricordata la fucilazione di due militari nel 1916, condannati a morte a seguito di un diverbio con un aspirante ufficiale su questioni di rientro dalla libera uscita.
La vergognosa sentenza che decretò la morte dei due uomini (uno dei quali padre di cinque figli) era stata denunciata nell’epigrafe di una lapide posta nel primo dopoguerra dai socialisti magrediensi.
La lapide fu prima fatta scalpellare dalle autorità militari e poi, sotto il fascismo, fatta sparire, nel clima di celebrazione dei principi e duchi della guerra tanto cari al riabilitatore de
La Stampa. La lotta contro gli scalpellatori, i censori della memoria della classe sfruttata, contro i nemici della sua coscienza di sé, della sua storia, è ancora in corso, più che mai. Oggi, per di più, gli scalpellatori della memoria proletaria si atteggiano a liberi, imparziali e anticonformisti avversari di una vulgata ideologica dominante. Ma, sotto sotto, la retorica e i silenzi sono sempre i soliti, i vecchi arnesi del privilegio di classe.