LORO E NOI - 25/09/2021
 
Il solco, la spada che lo difende e la penna che lo inventa

Chi è vecchio del mestiere sa in genere usare gli attrezzi del mestiere, specie se vecchi.
Se poi è invecchiato nel brutto (ma non di rado proficuo) mestiere di servitore intellettuale e ideologico di questa o quella componente borghese, nei ranghi di tamburino nelle campagne che i mass media orchestrano per ingannare i proletari e servire i propri padroni, va da sé che gli attrezzi sono quel che sono.
Trucchetti retorici, formule e trappole di una fasulla e interessata logica formale, sillogismi da prestigiatore dello slogan, tutte le più squallide varianti di un gioco delle tre carte costantemente al servizio della conservazione del potere capitalistico di turno.
L’importante è che ogni serio, ponderato – pericolosissimo per lorsignori – ragionamento intorno agli interessi di classe, alla natura di classe degli Stati e delle loro politiche, sia scongiurato, tolto di mezzo sul nascere, sommerso sotto immani strati di parole al guinzaglio.
Francesco Merlo su la Repubblica (edizione online del 19 agosto) ha pienamente dimostrato di essere vecchio del mestiere. E di non disdegnare l’utilizzo di vecchi, e non troppo puliti, attrezzi. Il trucco risale alla notte dei tempi, attraversa i secoli delle varie dominazioni di classe e del necessario stordimento delle coscienze delle classi sfruttate. Ma può ancora tornare utile. Si mette insieme una orripilante galleria degli orrori e del grottesco politico e poi, in tutta tranquillità, si offre, come unica possibile alternativa, la propria valutazione e le proprie posizioni. Al lettore, infine, la libera scelta: o con la linea proposta dall’unica voce raziocinante o con il delirio, immersi nel sonno della ragione. Tertium non datur.
Sulle pagine di Repubblica, affrontando la questione Afghanistan, ci si attiene senza tanti fronzoli al copione. Merlo sa che ci sono frange marginali, sinistri senza bussola teorica e oggettivamente sempre disponibili a fornire una comoda sponda alla verniciatura cartesiana e illuminista degli interessi imperialistici, e proprio da loro inizia nel tratteggiare la famigliola politica contraria alla guerra per la democrazia: «i talebanini, gli “italiban”, quelli che l’orrore del terrorismo è comunque meglio dell’orrore dell’Occidente», quelli che «hanno subito richiamato in servizio i vecchi fantasmi leninisti, la k di Amerika e l’imperialismo anglosassone», gli «agiografi del Mullah Omar, ammirato come il guerrigliero in motocicletta, fiero resistente al grande Satana che non solo nella vecchia vulgata marxista leninista, è travestito da liberator».
Ce ne sarebbero di cosucce da dire a partire dal fatto che considerare un prodotto minore della contesa imperialista come il movimento talebano un perno della lotta antimperialista attesta una disperata incomprensione del concetto stesso di imperialismo. Altroché ispirazioni leniniste. Per proseguire su come circoscrivere, limitare la realtà dell’imperialismo all’America con la k sia quanto di più distante dal marxismo e dalla grande lezione di Lenin.
Ma non è questa la polpa dell’operazione di Merlo, che probabilmente sa distinguere benissimo tra il marxismo e le sue caricature (se poi ha veramente scambiato per marxismo le tirate allucinogene dei suoi amici gruppettari di gioventù, il discorso in realtà non cambia di molto). L’intento è quello di sommare un’inguardabile accozzaglia di storditi come piedistallo per il richiamo all’ordine. Infatti ai “talebanini” di sinistra, la celebre penna di Repubblica, aggiunge prontamente la «retorica della destra antimperialista, quella che il 25 aprile non celebra la Liberazione ma piange l’ Occupazione».
E non è finita qua: in questo mucchio selvaggio sgomitano anche i «pacifisti assoluti», i «signori Né-Né» che in passato hanno di fatto portato le boracce al brigatismo. Fino a postulare che dietro a questa attitudine al né-né si nasconde inevitabilmente (e in forma per di più subdola) il fascismo.
A leggere queste perentorie argomentazioni, queste sciabolate retoriche che non lasciano altra scelta se non quella precostituita e sponsorizzata nell’articolo, è come se una brezza inquietante, proveniente da lontano, ci passasse sulla fronte, sussurrandoci ancora slogan come “il sinistrismo maschera della Gestapo”, parole d’ordine con cui si è decretata la condanna a morte di comunisti che non volevano sacrificare la rivoluzione della classe operaia né agli interessi dell’imperialismo alleato o nazi-fascista né a quelli del falso socialismo staliniano.
Infine, giunto al redde rationem, Merlo spara la sua cartuccia finale: «in questa guerra della Civiltà contro l’Inciviltà, anche il più scaltro degli italiban dovrà decidersi: o con l’Occidente o con l’Emirato dei terroristi».
E le classi sociali proprie del capitalismo, con i loro differenti e antagonistici interessi (in Occidente e in Oriente, nel Nord e nel Sud del mondo)?
E il concetto dialettico, profondo, mai sloganistico, di imperialismo, che invece spiega, eccome, anche gli sviluppi in Afghanistan, senza scadere nel tifo per forze sociali e soggetti politici tanto mitizzati quanto incompresi?
E la storia del socialismo, del pensiero marxista, le esperienze della lotta di classe, di critica al capitalismo e alla sua retorica falsamente unificante dietro lo schermo della nazione o della comune civiltà?
E il ruolo che tutta questa grande storia politica e sociale ha avuto e ha in una definizione non propagandistica di Occidente?
Tutto questo viene semplicemente espulso dalla formula di Merlo: o con noi (l’Occidente su misura di Merlo e di Repubblica) o con i fanatici islamisti (mai compromessisi, per carità, con legami, contatti e scambi con le potenze dell’Occidente…).
L’importante è che questo “loro e noi” che non tollera alcun “né-né” sia tagliato su misura della sacralità del capitalismo e che il proletariato sia subalterno, soggiogato, privato di ogni barlume di autonoma coscienza del proprio essere e dei propri compiti. Tanto di qua quanto di là.