LORO E NOI - 14/08/2021
 
Morti operaie? I giornali dei padroni ne vogliono parlare

È amaramente istruttivo leggere i commenti dei grandi giornali della borghesia italiana (soprattutto se con atteggiamenti e pose “progressiste”) sui continui casi di morti sul lavoro.
La morte dell’operaia Laila El Harim, stritolata da una fustellatrice, ha ancora una volta dato il via a sfoggi di retorica, pietistiche commemorazioni e, data la specifica identità di questa ennesima vittima del capitalismo, untuose celebrazioni del lato “femminile” della tragedia.
A conferma di come la pietà della borghesia, il suo particolare femminismo, adagiatosi all’ombra del capitale e negatore della realtà della divisione in classi, non possano che risolversi in armi ideologiche al servizio dell’inganno dei proletari e della perpetuazione delle logiche omicide del modo di produzione capitalistico, sono giunte puntuali le prose dei Commenti del 4 agosto de La Stampa e de la Repubblica.
Sul giornale simbolo della borghesia progressista ci si sofferma sui vuoti nella rappresentazione della vita di «queste tragiche sorelle d’Italia» cadute sul lavoro, di come i loro «selfie ingenui» non fotografino la fatica e l’angoscia della loro vita di lavoratrici, ma soprattutto non colgano il dramma di «un virus che uccide le persone, oppure le licenzia».
Il virus che licenzia? Saremo anche noi un po’ “ingenui” ma ci sembra che manchi qualcosa, qualche figura sociale, qualche realtà di classe, in questa ricostruzione delle dinamiche storiche che la classe operaia sta oggi attraversando e subendo.
Ma non solo, occorrerebbe, secondo l’interpretazione di Repubblica, dare conto anche dei «compromessi che talvolta si accettano pur di non restare disoccupate», del «ritmo che aumenta in nome della ripresa».
La chiosa è struggente lirismo: «Ma questo nelle foto condivise su Facebook, non c’è».
Lasciamo a spiriti evidentemente più sensibili dei nostri queste considerazioni su come le foto «dei giorni belli» non lascino trasparire l’asprezza della vita operaia (o la trasmettano solo a chi ha il dono di saper guardare oltre…).
Ci accontentiamo di notare come nella vibrante pagina di Repubblica manchi qualcosa di più prosaico: i padroni, il capitale con le sue leggi, le sue contraddizioni e regole.
Se è il virus che licenzia, se è la “ripresa” che impone ritmi estenuanti ai lavoratori, le lacrime borghesi per le morti operaie pesano davvero poco, sono un velo di ipocrisia sui macchinari sporchi di sangue, sulle nostre tombe proletarie.
Sullo storico quotidiano di casa Fiat evidentemente si hanno meno imbarazzi a tirare in ballo certe figure sociali. A patto però di farlo nei dovuti modi e con le dovute conclusioni. «Chi è il nemico quando una macchina spalanca la sua bocca infernale e azzanna un corpo, facendolo a pezzi? La macchina è acefala e obbediente, qualcun altro la comanda. Allora è lui il nemico, il padrone, se è disposto a manomettere per lucrare più possibile, ad allungare i turni, a risparmiare sulla manutenzione? O è il lavoro stesso, un nemico?». Le domande sono evidentemente retoriche, contengono già una risposta predeterminata, scontata. «Fermiamoci un attimo. Né guelfi né ghibellini, ma tutti insieme per non avere bisogno di altri simboli. Parliamo di lavoro, di più, sempre. Così da non doverne più parlare in cronaca nera».
Ma certo! Parliamone tranquillamente per i secoli dei secoli, senza ideologiche contrapposizioni (guelfi e ghibellini o, se si preferisce, borghesi e proletari), parliamo “tutti insieme” di “lavoro” e alla fine una soluzione salterà pure fuori… La verità è che i lavoratori morti sul lavoro sono i morti della lotta di classe che quotidianamente il capitale conduce contro l’essere umano ridotto a merce forza-lavoro.
L’unica vera, coerente difesa su cui i lavoratori possono contare è nella loro lotta, nella lotta della propria classe per arginare, limitare, e un domani cancellare dalla faccia della terra, la sanguinaria sete di profitto del capitale e dei suoi agenti.
Tutto il resto non è solo aria fritta, sono veleni al servizio della guerra di classe degli sfruttatori