LORO E NOI - 17/06/2021
 
Divinità maligne e divinità benigne

Non è raro che nelle cronache compaiano episodi di inaudita arroganza padronale, aventi per oggetto licenziamenti individuali che hanno il sapore della più bieca prevaricazione, i quali, una volta impugnati si risolvono, dopo i consueti due o tre anni di iter giudiziario, con una sentenza di reintegra del lavoratore e di condanna del datore di lavoro al risarcimento delle mensilità perdute (o di parte di esse), nonché delle spese processuali. Per citare solo alcuni degli ultimi episodi in tal senso, ricordiamo il caso riportato da il Fatto Quotidiano del 19 maggio concernente una lavoratrice della Coop di Firenze, licenziata nel 2019 per aver regalato ad un cliente due gamberi del valore di 21 centesimi, ed in seguito reintegrata dal giudice. Ovvero ancora il caso illustrato da La Stampa del 21 maggio, che ha visto coinvolta una lavoratrice della ditta di pulizie in appalto all’ospedale Molinette di Torino, delegata sindacale, licenziata nel 2019 per aver testimoniato con un video le pessime condizioni di lavoro in cui ella e i colleghi erano costretti ad operare, ed in seguito reintegrata grazie ad una sentenza del tribunale.
Sia ben chiaro che non è nostra intenzione cadere nella logica del “tanto peggio tanto meglio”.
Sappiamo benissimo che tali sentenze sono andate a risolvere drammi individuali difficilmente risolvibili altrimenti, nell’attuale clima di inedita debolezza del proletariato.
Tuttavia, è nostro dovere di elementi coscienti scoperchiare la catramosa patina di humana pietas per quella che viene implicitamente descritta come la vittima di una prevaricazione, per permettere alla luce di tornare a illuminare la figura sociale che tale vittima incarna.
Non si tratta infatti di una vittima generica, ammesso che tale figura possa esistere, ma bensì di un proletario, portatore di precisi interessi di classe (anche se spesso sembra essersene dimenticato) in contrapposizione agli interessi dell’altra classe, quella che lo sfrutta, che determina in un senso o nell’altro il suo destino, alla quale appartengono sia il “tiranno” datore di lavoro che lo licenzia, sia il “benevolente” magistrato che lo fa riassumere. Il datore di lavoro che esercita il suo enorme potere sociale sul proletario licenziandolo, lasciandolo senza reddito e con esso senza fonte primaria di sopravvivenza, e il giudice che lo “salva” obbligando il primo a riassumerlo, altro non sono che due facce della stessa medaglia.
Sono due fattori probanti del fatto che il destino del proletariato, quando questi smette di organizzarsi in una dimensione collettiva per rivendicare gli interessi specifici della propria classe, lo decide, nel bene o nel male, la classe che lo domina.
C’è una fondamentale differenza tra una sentenza favorevole al lavoratore emessa a seguito del pressing del proletariato organizzato in lotta per sbilanciare i rapporti di forza a proprio favore, e una sentenza favorevole figlia della semplice applicazione di talune leggi, magari da parte di magistrati pur sensibili ai problemi della nostra classe.
Nel primo caso il proletariato è soggetto che concorre attivamente a determinare il proprio destino, mentre nel secondo è oggetto inerme in totale balìa della borghesia e delle sue sovrastrutture, quasi fossero divinità benigne o maligne, a seconda degli effetti del loro arbitrio sul destino della classe oppressa.
È dunque altamente diseducativo e fuorviante salutare quelle sentenze come vittorie, poiché è una sconfitta la circostanza di partenza, ovvero la passività con cui il proletariato nel suo complesso accetta l’arbitrio della classe dominante, confidando quasi con superstizione nella benevolenza di imprenditori e magistrati. Sentenze simili, potranno essere considerate vittorie solamente nel momento in cui saranno frutto del riaffermarsi del proletariato, nella sua dimensione collettiva, nell’agone della lotta politica e sociale, della sua organizzazione collettiva atta ad imporre e difendere quanto più possibile i propri interessi di classe.
Solo in questo modo potrà di nuovo orientare attivamente e da protagonista, come già ha dimostrato di saper fare in passato, la risultante dei rapporti di forza in suo favore, senza doversi aggrappare alla benevolenza dei suoi avversari.