Una filastrocca troppo facile
Luigi XIV diventato Luigi 14 in un museo parigino ha scatenato polemiche anche in Italia. Da Massimo Gramellini a Luciano Canfora sul Corriere della Sera, i critici dell’iniziativa hanno sollevato vari argomenti, dalla tirannia del politicamente corretto all’abdicazione dei solenni numeri romani da parte proprio dei Paesi di cultura latina. Dal nostro punto di vista, c’è altro di grave e rivelatore nel cambio di didascalie delle opere esposte al museo Carnavalet (già operativo, per quanto riguarda la numerazione dei secoli, anche al Louvre). «Perché i numeri romani possono essere un ostacolo alla comprensione», ha spiegato la curatrice del museo.
Del resto anche i musei non possono che seguire le logiche del “profitto” e quindi i curatori vengono valutati per numero di biglietti venduti e non più di tanto per la qualità dell’esposizione museale, intesa come ricerca di ciò che ha portato ad un esito storico. Non si tratta più di guidare un soggetto disposto a comprendere, ad approfondire, lungo un percorso verso una maggiore conoscenza e consapevolezza dei processi storici, aiutandolo in uno sforzo di apprendimento che può essere sorretto, instradato, fornito di adeguati strumenti, ma non evitato o svilito. Si tratta ormai di accontentare e intercettare una platea più ampia possibile di consumatori, assecondandone i vezzi, le pigrizie, i limiti.
Come recita un detto americano, divenuto popolare nel mondo dello spettacolo: nessuno è mai fallito sottovalutando i gusti del pubblico.
Un tempo però, anche nel pieno della società capitalistica, esistevano ambiti, canali, settori della comunicazione di massa in cui la priorità del profitto, la legge del mercato era in qualche modo relativizzata in nome di esigenze di formazione culturale, per quanto inevitabilmente condizionate dalla trasmissione dell’ideologia dominante. Ma oggi anche questi spazi sono ridotti al lumicino, ovunque trionfa il consumatore che va inseguito e soddisfatto col massimo risultato (di mercato) e il minimo sforzo (intellettuale). I tempi, i linguaggi del più becero degli spot pubblicitari hanno invaso il dibattito politico di massa, potevano forse resistere i musei? Perché assumersi le fatiche, i problemi e i rischi di una proposta formativa, fosse anche per spiegare che il Re Sole è Luigi XIV, quando si possono accontentare più consumatori con un bel Luigi 14?
Il trionfo del capitalismo, con argini e forze di contrasto al minimo storico, è anche questo. È anche il cittadino, realtà e concetto storicamente propri dell’era borghese, svuotato di tutte le sue valenze progressive, divorato dall’irrefrenabile e totalizzante dimensione del consumatore.
Di questo regresso borghese è inevitabilmente la nostra classe, la classe subalterna, a pagare il prezzo maggiore. I figli della classe dominante, i suoi grandi servitori, saranno sempre educati – non c’è ombra di dubbio – a sviluppare quell’agilità mentale che li renderà capaci di muoversi tra numeri arabi e romani, comprendendone anche il significato simbolico ed evocativo. Continueranno a disporre della capacità di ragionamento per maneggiare il conteggio dei secoli in base al quale il secolo Ventesimo è il Novecento. Continueranno ad abbeverarsi al mondo concettuale latino e alle sue formule sintetiche ed esemplarmente chiarificatrici. Continueranno a sapere quanto, in certi momenti dell’esistenza, occorra dare prova di stoicismo e come possa servire all’esercizio del loro ruolo una robusta dose di cinismo, senza privarsi di propensioni epicuree. Intanto, la nostra classe, i proletari, gli sfruttati, saranno adulati dai demagoghi di ogni risma e ambiente – che, come Lenin ha
magistralmente insegnato, sono i peggiori nemici della classe operaia – in modo che si sentano appagati di un bagaglio di conoscenze sempre più misero, in modo che possano supinamente accettare un sempre più spietato assopimento di stimoli intellettuali e aspirazioni al sapere contrabbandato per rude e sincera virtù popolare. Non a caso, in ogni leva e generazione, i proletari coscienti si sono distinti anche per l’impegno, l’ansia con cui hanno cercato di decifrare, di strappare a sé gli elementi della cultura della classe dominante. Compresi, acquisiti dai lavoratori coscienti in un impegnativo percorso di crescita, questi elementi, impiegati come strumento di soggezione nelle dinamiche oppressive della divisione in classi, potevano essere rovesciati e convertiti in ulteriore fattore di rafforzamento della propria identità politica di combattenti contro il capitale, le sue leggi e i suoi imperativi alienanti. I proletari coscienti si sono sempre rifiutati di essere trattati come
eterni infanti a cui la conoscenza deve essere somministrata in forma di pappetta, di volgarizzazioni e banalizzazioni che escludono ogni avanzamento, che eternizzano l’ignoranza, per di più proditoriamente celebrata come condizione naturale e propria di chi deve evidentemente lasciare ad altri, ad altre classi, i traguardi e le fatiche della conoscenza. E così il popolo sovrano delle grandi rivoluzioni borghesi, esauritasi definitivamente la sua parabola ascendente e imputriditosi l’ordine sociale che la sua antica lotta ha sancito, deve lasciare il posto al gregge elettorale, al gregge sportivo, alle masse lavoratrici che, chiuse nella rappresentazione mitologica di uno sconfinato ceto medio di consumatori, sono ridotte ad accettare un peggioramento dietro l’altro della propria condizione come se fosse indiscutibile legge di natura, non dato storico conoscibile e mutabile. Non abbiamo alcun rimpianto o preferenza per la “vecchia” scuola della borghesia, per le istituzioni del sapere
apertamente elitario e classista. Sappiamo che l’odierno, cialtronesco, populismo culturale non è un’alternativa alla cultura della dominazione di classe, ma è solo l’altra faccia della stessa medaglia.
Non ci interessa la cultura come elemento di distinzione, non ci interessa la formazione per fare carriera, ci preme invece che i proletari non accettino la fetida e velenosa brodaglia di una semplificazione “merceologica” del sapere funzionale a rendergli sempre più difficile capire che tra XIV e XVI non corre solo una posizione tra le cifre, ma anche una rivoluzione e una testa ghigliottinata.
|