LORO E NOI - 15/11/2020
 
Gattopardi a Washington (e non solo)

Alla sinistra della politica borghese italiana piace spesso assumere la posa della bella addormentata in attesa del principe azzurro, puntualmente riscoperto in qualche affermazione elettorale oltre confine.
L’elenco sarebbe ormai lungo e la storia dell’attesa miracolistica di un salvatore capace di sollevare la sinistra italiana dalle macerie, di costituire un faro per chi, rinnegate le avvelenate radici staliniste-togliattiane, ha dovuto navigare a vista tra liberalismo dal volto umano ed europeismo messianico, si colorerebbe di sfumature dal deprimente al grottesco.
Adesso, scocca l‘ora della (tormentata) vittoria democratica nelle presidenziali Usa e chi meglio del kennediano di casa nostra per eccellenza, Walter Veltroni, può incaricarsi di salutare il nuovo che avanza, nella persona di un attempato e navigato esponente politico della borghesia statunitense.
Vendere Biden come una ventata di aria fresca per la sinistra è invero impresa ardua e Veltroni deve ricorrere all’artiglieria pesante dell’armamentario ideologico e retorico: «Quando il pensiero democratico riesce a tenere insieme la radicalità, ovvero l'idea che il cambiamento sia una sfida dolorosa, che contrasta con poteri, con pregiudizi, con antiche abitudini e privilegi, restando al tempo stesso inclusivo, anche nel modo di presentarsi al Paese, allora determina entusiasmo. La forza del pensiero democratico è in questa sintesi» (la Repubblica, edizione online, 9 novembre)
Vabbè…verrebbe da chiedere come può un esponente di un partito che ha raggiunto in tempi recenti il suo massimo di «radicalità» con il Jobs Act (un’autentica radicalità padronale e reazionaria) tornare con tanta disinvoltura a pontificare sulla rappresentanza dei ceti popolari in preda alla «disperazione sociale» (chissà come mai tra di essi Trump ha continuato a prendere milioni di voti e chissà perché populismi vari hanno fatto breccia anche tra la classe operaia italiana…).
Verrebbe da chiedere conto di anni e anni di retorica riformista, di un riformismo senza riforme, a meno che non si vogliano definire tali gli autentici regressi sociali, in primis nella condizione dei lavoratori, che la sinistra sedicente riformista ha favorito e avallato nel nome della modernità, della divinizzazione del mercato, del futuro radioso di una globalizzazione governata dalle mani sapienti dei progressisti sottilmente capaci di distinguere tra flessibilità (buona) e precarietà (cattiva).
Ma conosciamo le risposte. Conosciamo l’immancabile appello al loro pragmatismo, al loro realismo (tutti “ismi”, questi, che non passano mai di moda, evergreen al di sopra di qualsivoglia campagna di delegittimazione). Sappiamo come alla fin fine, scavando, e nemmeno molto, salti fuori la loro quadratura del cerchio nel nome del meno peggio. Un meno peggio che non solo lascia intatti l’oppressione di classe e il dominio del capitale, ma che ha costituito per decenni la facile, eppur efficace, copertura ideologica di un inasprimento della condizione di subalternità del proletariato. Adesso, salvo clamorose sorprese, a rappresentare al massimo livello l’imperialismo statunitense non sarà più il profilo sguaiato di un miliardario cafone, ma l‘affabile sorriso e i modi più urbani di “zio Joe”. Questo non cambierà di una virgola la divisione in classi della società, non addolcirà né la condizione di sfruttamento del proletariato americano né l‘azione imperialistica della borghesia statunitense a livello globale.
Ma è proprio per questo che esistono e operano i Veltroni di ogni latitudine capitalistica. A loro spetta il compito di convincere il più possibile i lavoratori che è una grande cosa, un motivo di esultanza anche per loro, se la classe dominante che li sfrutta, li opprime, li calpesta, riesce a mantenere saldo il controllo di tutto il sistema di dominio cambiando periodicamente casacca.