LORO E NOI - 18/10/2020
 
Un’invettiva di comodo

Di fronte all’ennesima, catastrofica, manifestazione di dissesto idrogeologico, con alluvioni, frane e distruzione di ponti e case (in Italia, soprattutto nel Nord-Ovest), La Stampa del 4 ottobre ha affidato un commento a Mario Tozzi, geologo e volto noto della divulgazione scientifica.
Fin dal titolo appare chiaro uno dei cardini dell’articolo, non si può incolpare la natura. L’assunto iniziale poteva lasciare trasparire sviluppi interessanti del ragionamento: basta con la retorica della natura colpevole, finiamola con la banalizzazione dell’uomo che si rivela poca cosa di fronte alla forza del fato e alla possanza della natura matrigna (caricature della grande riflessione leopardiana). «Guardare a terra, non in cielo», esorta il geologo. Peccato che il suo sguardo terreno colga solo «l’uomo» come soggetto slegato da ogni contesto storico, legame e condizionamento sociale. Scacciata la “natura”, il divulgatore scientifico la rimpiazza con una nuova entità metafisica, un’ennesima, comoda, superficiale astrazione che consente di lanciare strali e invettive senza dare fastidio ad alcuno, senza avvicinarsi minimamente alle radici sociali del problema. Il geologo, in lotta contro i retori della natura colpevole, punta così il dito contro «l’uomo» o, in alterativa, il «cittadino», categoria sempre utile alla bisogna. Si arriva così al termine della lettura di un articolo che affronta la questione della cementificazione, delle devastazione operata sul territorio, della «bulimia costruttiva», senza aver visto menzionati, nemmeno di sfuggita, il profitto, la sua logica, i criteri dell’economia capitalistica e le sue contraddizioni. Si è costruito e si continua a costruire in aree insicure, si accentua il pericolo con disboscamenti dissennati dal punto di vista dell’equilibrio idrogeologico, si ricopre di cemento e asfalto gli alvei dei fiumi? La colpa è «dei sapiens».
È chiaro, quindi, che il problema non è tanto se si guarda al cielo o alla terra, ma come si guarda. Si può fissare il terreno, ma se non si vede l’uomo storicamente reale, all’interno di una specifica società, con le sue specifiche contraddizioni, si finisce sempre per recitare la parte del tonante profeta che in realtà non spiega nulla e le cui vibranti condanne echeggiano vuote nel vuoto di un’esistenza umana senza classi e senza autentiche responsabilità storiche. Distruggere l’equilibrio ambientale e saccheggiare il territorio è destino dell’ “uomo” o dell’uomo asservito nella società del capitale, con le sue leggi che se ne fregano degli interessi di specie? Quali differenti responsabilità portano il capitalista che ha onorato il suo ruolo sociale costruendo dove più conveniva e il proletario che può permettersi di andare al lavoro solo su una vecchia auto inquinante? Tutto ciò evidentemente a Tozzi non interessa, sono tutti “sapiens” in fin dei conti. Su questi presupposti, i richiami finali a «ripensare il rapporto fra cittadino e natura», «a una nuova pianificazione che sia più equilibrata e armonica», si collocano tra la predica insulsa e la beffa. Quanto poi alla conclusione – secondo cui «non si può più morire nel fango all’inizio del terzo millennio, tanto meno in un paese che ha ambizioni da potenza mondiale» – è bene che il telegenico divulgatore si metta l’anima in pace: fintanto che regnerà il capitalismo, nel mondo intero si continuerà a morire «nel fango», di guerra, di fame, di malattie già curabili. Un’esistenza umana collettiva, «più equilibrata e armonica», sarà possibile solo superando il capitalismo.
Ma per raggiungere questo grande obiettivo occorrerà, lungo la strada, rigettare anche le prediche di chi nasconde l’inumana dittatura del capitale dietro il paravento di un “uomo” che è in realtà la negazione della lotta per una futura società veramente umana.