LORO E NOI - 18/09/2020
 
Parenti stretti

La Provincia Pavese dell'8 settembre ha tratteggiato la situazione di un infermiere professionista: «da oltre sedici anni» percepisce lo stesso stipendio, gli è stata ventilata la possibilità di ricevere una cifra forfettaria di mille euro (dicesi mille) per liquidare tutti gli arretrati, chiede (che pretese hanno i lavoratori di questi tempi...) che venga messo «nero su bianco» il divieto di lavorare più di dodici (dicesi dodici) ore consecutive e stabiliti almeno quindici giorni di calendario consecutivi per le ferie estive.
La domanda che si impone è: come si è arrivati a questo? Come si è regrediti fino a questo punto nelle condizioni del lavoro in Italia? Siamo di fronte al frutto, a suo modo e amaramente coerente, di decenni ormai di cosiddetta pace sociale (quella pace che fa comodo solo ai padroni e ai loro tirapiedi sia politici che sindacali), di sostanziale stagnazione delle lotte dei lavoratori, di abbandono dei benché minimi criteri di organizzazione e di autodifesa del proletariato. Questa lunga e melmosa stagione – resa possibile anche dalla temporanea e contraddittoria diffusione di un relativo benessere spacciata per fine della storia e delle classi – si è alimentata di illusioni piccolo-borghesi diffuse e disseminate tra i lavoratori salariati, di gretto e miope individualismo elevato a principio guida di una presunta via al successo personale e invece reale viatico alla resa di fronte al nemico di classe, di nicchie e scappatoie destinate a restringersi sempre più lasciando nel suo insieme la classe lavoratrice indifesa e alla mercé dei propri sfruttatori. Questa stagione ha inevitabilmente prodotto il suo personale sindacale, i vertici attuali delle organizzazioni che avrebbero sulla carta, in quella che è una definizione storica dei loro compiti, la funzione di impostare una prima, immediata forma di resistenza e di tutela del lavoratore di fronte al capitale e che invece hanno a loro volta abbondantemente contribuito al disorientamento, allo scoraggiamento della nostra classe.
Basti pensare alle reazioni della segretaria della Cisl Annamaria Furlan, reduce dall'incontro, insieme agli altri leader confederali, con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Tutta contenta per il fatto che il capo confindustriale si sia degnato di parlare con i vertici confederali, in un clima da più parti salutato come di “disgelo” (considerato il livello di conflittualità sindacale nei confronti del quale questo rinnovato spirito di collaborazione dovrebbe costituire un segnale di moderazione, i lavoratori hanno tutte le ragioni per preoccuparsi...), la segretaria Cisl si è lanciata (in un'intervista sempre sulla Provincia Pavese) in ardite figure retoriche. Di fronte al presidente di Confindustria che non ha il minimo pudore nel pretendere, in presenza di milioni di lavoratori ancora in attesa del rinnovo dei contratti collettivi nazionali, l'inaugurazione di contratti «rivoluzionari», con cui i padroni possano cioè impunemente estorcere più tempo di lavoro senza aumentare il salario (attendiamo fiduciosi che Confindustria e altri ambiti borghesi si decidano a definire “rivoluzionario” il provvedimento con cui reintrodurre l'usanza di applicare ai braccianti una museruola affinché, affamati, non possano mangiare parte dei frutti raccolti), la Furlan non trova di meglio che lanciare questo singolare grido di battaglia: «Ragioneremo insieme su come il lavoro si fa comunità puntando alla produttività senza però dimenticare che è un parente stretto della qualità del lavoro e della giusta retribuzione».
Non stupisce che in questa allegoria parentale manchi la lotta. Essa non rientra nella famiglia di questi sindacalisti e di questo sindacalismo. Non è invitata ai tavoli del disgelo tra le “parti sociali”, agli «utili» incontri che hanno lasciato salari inchiodati per oltre 16 anni.
Ma solo la lotta dei lavoratori potrà incrinare questo opprimente idillio tra sfruttatori e i loro complici.