Romanzo criminale
Di fronte all’utilizzo di determinate parole, di determinati aggettivi in determinati contesti, si ha la sensazione di vivere in mondi paralleli.
In piena pandemia abbiamo assistito ad una formidabile azione di lobbying da parte del fronte industriale perché una valanga di imprese potesse rimanere in attività, con milioni di lavoratori esposti al rischio di contagio nel nome della continuità produttiva e delle esigenze di mercato (il tutto mentre aree di forte profilo industriale come quella bergamasca mostravano i costi umani dell’imposizione di queste priorità).
Il distanziamento sociale è diventato in breve tempo una barzelletta anche in ragione della pressione esercitata dagli esercenti e dalle loro organizzazioni sui propri referenti, di ogni colore a disposizione sulla tavolozza della politica borghese.
Anni e anni di politiche – sostanzialmente bipartisan – di privatizzazione/aziendalizzazione del sistema sanitario hanno presentato un conto tragico in termini di vite umane.
Anni e anni di politiche – sostanzialmente bipartisan – di flessibilità/precarizzazione hanno presentato un conto drammatico in termini di condizioni di vita per moltissimi lavoratori e le loro famiglie, esposti con ancora più crudezza di prima alla soverchiante superiorità del potere padronale, mobilitatosi prontamente per capitalizzare al massimo la “crisi da coronavirus” e scaricarne i costi sui dipendenti. Ai piani alti di Confindustria non si è perso un istante per rilanciare con più foga che mai vecchie parole d’ordine volte a spianare la strada ad un’ulteriore spoliazione di quelle già risicate forme di tutela del lavoro salariato ereditate da trascorse stagioni di lotta operaia.
Il dramma sociale dei braccianti agricoli di Mondragone e non solo, sfruttati con normale ferocia nei campi e costretti per ragione di mera sussistenza a continuare a mettersi a disposizione dei loro sfruttatori anche in regime di lockdown, ha ricevuto un’interpretazione politico-mediatica che in genere non è andata oltre la più squallida narrazione sciovinistico-securitaria. Mentre nessuno che conosca un minimo le condizioni dei lavoratori delle aziende logistiche può sorprendersi del nuovo focolaio che si è acceso al magazzino Bartolini di Bologna.
Insomma, l’epidemia ha messo per l’ennesima volta a nudo la natura intimamente criminale del capitalismo, delle sue leggi, delle sue logiche, delle sue priorità.
Eppure c’è chi ha utilizzato tranquillamente l’aggettivo criminale in ben altro modo. È stato l’amministratore delegato di Pininfarina, intervistato l’11 giugno sulla Provincia Pavese. Secondo il manager, tutta l’esperienza dell’epidemia e dei suoi risvolti sociali si risolve in un giudizio perentorio: fare le ferie ad agosto è «criminale».
Siamo pazzi noi o è pazzo lui? Davvero viviamo in universi distinti, con regole e valori estranei e linguaggi incomprensibili e incomunicabili? Quale mistero antropologico si cela dietro questa abissale differenza di percezione?
In realtà, basta leggere in maniera un po’ più completa la sua dichiarazione per capire una verità molto semplice. «Se c’è la domanda, l’offerta non può mancare. Sarebbe criminale farlo. […] Dobbiamo recuperare quote di mercato».
Non è un alieno né un pazzo. È un normale capitalista. Con i suoi normali valori, il suo normale credo e la sua normale divinizzazione del mercato, del profitto e del capitale.
Di fronte a sua maestà il capitale è per lui perfettamente normale, logico, naturale che la salute, la vita, l’essere umano – a maggior ragione se nello specifico è un proletario – facciano un passo indietro. In caso contrario si tratta di lesa maestà, un atto «criminale».
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