LORO E NOI - 21/01/2020
 
Il profeta disarmante

La Stampa (10 gennaio), commentando gli scioperi in Francia contro i propositi del Governo del presidente Macron di mettere le mani sulle casse pensionistiche di specifiche categorie di lavoratori («frutto della loro capacità negoziale», ammette tranquillamente il giornale), non ha certo brillato per originalità. Se nel settore pubblico sarebbe funzionale a mantenere lo status quo (facendo pagare il prezzo alla cittadinanza con «disagi ad ampio raggio»), nel privato lo sciopero costituirebbe ormai «un rito sempre più stantio». Gli scioperanti francesi, poi, sarebbero giunti all’assurdo di «scioperare contro la demografia». La conclusione è a suo modo coerente: mentre lo scambio tra maggiore flessibilità e welfare aziendale dà mirabile prova di sé (e pazienza se la succinta sintesi tralascia tutte le fregature, tutti gli arretramenti per i lavoratori che questo tipo di «negoziazioni puntuali» porta con sé), di fronte all’oggettività di un lavoro che cambia, di una tecnologia che innova (e non solo «a vantaggio del capitale»), «serve dialogo, non scontro».
Insomma, allo storico giornale di casa Fiat lo sciopero non garba, oggi come ieri. La solfa della neutra e neutrale demografia contro cui non ha senso contrapporre la mobilitazione dei lavoratori è l’ennesima riedizione della squallida litania padronale secondo cui nulla si può di fronte alle esigenze della concorrenza, secondo cui gli imperativi del capitale – spacciati come l’inveramento di leggi di natura – e i dogmi del mercato rendono vana e illogica ogni forma di resistenza proletaria.
La tesi secondo cui i poteri politici della borghesia francese sarebbero spinti a mettere mano al sistema pensionistico mossi da insindacabili motivazioni di tenuta generazionale di un’indistinta comunità nazionale, al cospetto di mutamenti sociali che non conoscono demarcazioni di classe, è una panzana simile a quelle che in Italia hanno accompagnato decenni di sistematico furto ai danni dei versamenti dei lavoratori salariati a beneficio della copertura previdenziale per borghesi grandi e piccoli (dediti su scala di massa a quelle forme di evasione ed elusione fiscale giocoforza impossibili per il lavoro dipendente). Quando poi, anche sotto la spinta di mutamenti demografici, il sistema ha dovuto essere puntellato, la borghesia italiana ha scaricato ancora una volta sulle spalle dei lavoratori salariati i costi di un’inefficienza figlia innanzitutto del privilegio di classe. Non a caso l’opinionista de La Stampa cita come luminosi esempi gli interventi che hanno preso il nome di riforme Dini e Fornero.
Se c’è qualcosa di davvero stantio nel ragionamento del quotidiano torinese non è certo la volontà dei lavoratori di difendersi attraverso il ricorso allo sciopero. Ma è la formuletta con cui si pretende di sancire che un determinato fenomeno, un processo sociale (la demografia, la tecnologia, la “globalizzazione” etc.) – privato dei suoi caratteri di classe storicamente definiti e determinanti – possa spingere tutte le classi sulla stessa barca, salvo poi scaricarne i costi sempre sulla classe lavoratrice. In un’epoca in cui imperi economici vanno erigendosi su una crescente precarizzazione del lavoro, in una fase capitalistica in cui la polarizzazione sociale si fa più marcata e in cui all’intensificazione dello sfruttamento proletario, all’indebolimento delle capacità di difesa della classe operaia fanno da contraltare sempre maggiori occasioni di profitto per frazioni borghesi sempre più sfacciatamente privilegiate, occorre un bel piglio (diciamo così…) per predicare «dialogo, non scontro».
È vero, la borghesia ha sempre dialogato con i lavoratori e le loro organizzazioni (quando non li ha repressi) ma solo dopo aver fatto di tutto per porsi in condizioni di forza, per indebolire, fiaccare, dividere, corrompere la controparte. Per i lavoratori la lezione storica rimane più che mai valida: in bocca alla borghesia e ai suoi intellettuali la parola «dialogo» significa resa.