La normalità delle morti operaie nel capitalismo
Le cronache nazionali ormai riportano con lugubre frequenza notizie su incidenti e morti sul lavoro.
La Stampa (21 ottobre) si concentra sul Piemonte, dove sono ben sessanta i morti sul lavoro denunciati da inizio anno. L'ultimo in ordine di tempo è un operaio della provincia di Cuneo.
Secondo lo storico giornale di casa Fiat, il "Modello Cuneo" si starebbe interrogando su una storia di successo nell’industria manifatturiera, di export in crescita (oltre 8 miliardi), ma segnata da un terzo dei morti sul lavoro in Piemonte.
Più che interrogarsi, ci sarebbe da prendere atto di come puntualmente i successi capitalistici esigano dalla classe operaia un prezzo di dolore e morte. Più che elucubrare sul perché questo o quel "modello" capitalistico non riescano, altrettanto puntualmente, a sfuggire alle contraddizioni e alle leggi disumanizzanti del capitalismo, occorrerebbe ribadire a chiare lettere come incidenti e decessi sul lavoro siano questione di classe e di lotta di classe. Come sia la lotta di classe dei lavoratori il più potente motore per aumentare la sicurezza sui luoghi di lavoro, ridurre i carichi eccessivi e la pressione produttiva che favoriscono gli incidenti, imporre al capitale una spesa adeguata a migliori standard di sicurezza.
Più che di tavole rotonde su come far quadrare il cerchio della logica capitalistica, umanizzandola ma senza arrecarle troppo fastidio, la classe proletaria necessita di chiarezza di idee e di azione perché vengano strappate al profitto condizioni e risorse per un maggior rispetto della vita e dalla salute dei lavoratori. Invece il copione dei sindacati confederali è richiedere interventi legislativi, proporre tavoli di confronto, appellarsi ai governanti.
Chiedono al Governo e ai poteri dei padroni di mettersi una mano sul cuore ed elargire qualche tutela in più per la parte "debole" della società, alla cui debolezza questi stessi sindacati hanno non poco contribuito.
Alla faccia di decenni di intossicazione ideologica sulla fine delle classi, di prediche insulse all'insegna del "siamo tutti imprenditori e ceto medio", è la morte ad attestare con drammatica e incontrovertibile contabilità che non solo in Italia la classe operaia esiste ancora e regge ancora tutta l'impalcatura della società capitalistica, ma che sconta anche sistematicamente, con lo strazio dei corpi, delle menti e con la vita, la propria condizione di classe sfruttata. In questo caso la morte agisce esattamente al contrario della celebre livella, ma con altrettanta onesta, brutale forza chiarificatrice.
I proletari muoiono regolarmente sul lavoro ma la politica borghese è in tutt'altre faccende affaccendata.
Dai piani alti arriva al massimo qualche contrita espressione di rito.
Quanto può contare lo stillicidio di morti operaie per il Governo cosiddetto giallo-rosso, impegnato su ben altri tavoli, dove sono in ballo ben più corposi interessi borghesi?
Quanto può valere il dramma di famiglie proletarie stritolate da quella logica del profitto che la demagogia nuovista di grillini e renziani non ha mai nemmeno sognato di scalfire?
E dove sono gli innumeri populisti, con i loro primordiali barriti anti-sistema, con le loro belluine invocazioni dei diritti conculcati dei popoli?
Dove si sono acquattati i "capitani" tanto agguerriti nel respingere le navi cariche di esseri umani, dove si è nascosta la loro fierezza plebea?
Dove si sono defilati i sovranisti, in altre circostanze così solerti nel denunciare a voce tonante i "poteri forti" e le loro perfide trame a danno della tanto celebrata gente comune?
La verità è che è normale che i proletari muoiano sull'altare del profitto, è normale che paghino sulla propria pelle le leggi del capitale. La normalità del capitalismo gronda sangue. Ed è questa normalità che tutte le forze politiche borghesi, di ogni colore e parrocchia, sono chiamate a giustificare e tutelare. All'occorrenza, tacendo.
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