LORO E NOI - 21/07/2019
 
Niente di meglio di un po' di fame per rimettere al loro posto i lavoratori

All'editorialista de Il Giorno (4 luglio) Michele Brambilla la notizia della sentenza della magistratura del lavoro che ha accolto la richiesta di 300 lavoratori delle Marche, in gran parte infermieri e operatori socio-sanitari, perché il tempo di vestizione e svestizione (20 minuti in tutto) venisse considerato orario di lavoro, e quindi remunerato, non è andata proprio giù.
Il caso rivelerebbe un mondo del lavoro troppo schizzinoso, pretenzioso, sbilanciato sul versante della pretesa di diritti e immemore delle virtù dell'impegno e del sacrificio.
Versione scritta delle sempiterne chiacchiere da bar? Non solo.
Nel pezzo sono amalgamate trite tirate moralistiche ed elementi di indubbia verità, ma anche il modo con cui questi ultimi sono presentati merita un'annotazione di metodo. I «nostri figli», sentendosi «todos caballeros», disertano le scuole professionali destinate a impieghi che ormai disdegnano (da questo punto di vista, il paladino del lavorare duro e senza fiatare dovrebbe rilevare l'apporto benefico dell'immigrazione, con i lavoratori stranieri che vanno a colmare i vuoti nei campi, nelle fabbriche, nella logistica, ma curiosamente questo dato gli sfugge...).
Ma anche questa constatazione, che ha una quota di verità, se privata del retroterra di un'analisi sociale più complessa diventa solo una formula ideologica buona per cercare di indurre all'accettazione supina delle condizioni di lavoro imposte dal capitale.
I «nostri figli» sono immersi costantemente nel tessuto, nelle narrazioni, nei sistemi di (dis)valore di una società capitalistica putrescente.
Si sentono ripetere continuamente, attraverso i meccanismi di persuasione più vari, dal più grossolano al più subdolo e raffinato, che ciò che conta è fare i soldi, condurre la vita del nababbo pallonaro o canzonettaro.
La borghesia, con la prassi del suo modo di produzione liberato da intralci e contestazioni, con i suoi imponenti mezzi di diffusione ideologica, ha letteralmente triturato ogni esperienza che proponesse, pur all'interno dell'ordinamento sociale vigente, un modello di vita che non si incentrasse sul consumo, la ricerca della ricchezza, l'affermazione individualistica.
La concezione cristiana, ad esempio, è stata via via marginalizzata fino a diventare una comoda opzione tra le tante nel (condizionato) fai da te ideologico del mondo capitalistico.
I più vergognosi schiaffi alla povertà sono ormai di moda e al di sopra di ogni critica su format televisivi per grandi e piccini. Non parliamo nemmeno degli attacchi furibondi, delle più tenaci e volgari irrisioni contro gli ideali e i valori del movimento operaio rivoluzionario.
Eppure salta sempre fuori qualche bravo borghese a pretendere che, come d'incanto, i «nostri figli» ( in realtà, i figli del proletariato ), nel momento in cui approcciano il mondo del lavoro si rivelino, chissà perché, imbevuti di spirito stacanovista, proiettati a petto in fuori verso la più pura etica del lavoro come in una riproduzione dell'iconografia socialista di inizio Novecento (ma ovviamente senza la lotta di classe…).
Vogliono il trionfo del capitale e dei suoi valori ma senza che questo influenzi la classe dominata.
Vogliono consumatori a tutto tondo (serve alla domanda interna), individui incapaci di esercitare la benché minima critica al capitalismo, disponibili ad assorbirne come spugne le leggi e i miti, ma che sappiano diventare austeri come Diogene nel momento in cui rivestono la funzione di forza-lavoro.
Troppo comodo.
Troppo comoda è anche la figurina che Brambilla evoca come contraltare all'odierno lavoratore viziato: gli «ex pescatori romagnoli», divenuti, a prezzo di immani sacrifici, ristoratori di successo e protagonisti del «miracolo italiano». Ricostruzione molto parziale. Quel “miracolo” fu possibile anche grazie, e non poco, ad un'evasione fiscale di massa e tollerata, destinata ad essere pagata dal lavoro salariato. Fu possibile grazie alla disponibilità di forza-lavoro sottopagabile e sottoponibile a turni di lavoro massacranti (condizione tutt'altro che superata anche oggi nel settore della ristorazione). Ma questa considerazione ci porta al cuore delle argomentazioni dell'editorialista del Giorno: perché il lavoratore lavori bene e senza fisime occorre la fame (che oggi manca).
Fame nel duplice significato: «fame di lavoro» e fame che viene meno quando la «pancia si è riempita».
Bei tempi, insomma, quando i braccianti affollavano le piazze e padroni e caporali potevano scegliere puntando il dito chi si sarebbe spaccato la schiena senza fiatare.
Bei tempi quando la «fame di lavoro» consente alla borghesia di attingere ad un enorme esercito industriale di riserva, schiacciando i salari, reclutando legioni di crumiri e imponendo senza la benché minima resistenza il proprio arbitrio di classe dominante.
Bei tempi quando un lavoratore che ha osato alzare per un attimo la testa, magari una lavoratrice rea di voler essere madre, può essere lasciato facilmente a casa perché c'è la fila per prendere il suo posto.
Si rassicuri comunque Brambilla, purtroppo condizioni di questo genere sono tutt'altro che scomparse, anche nel panorama del capitalismo italiano.
Bei tempi poi quando la fame della pancia vuota spinge figli e figlie del proletariato alla criminalità e alla prostituzione.
Come non fregarsi le mani quando la fame entra nella famiglia proletaria e compie la sua puntuale opera di disperazione e abbrutimento.
La fame delle classi subalterne, fame di lavoro e fame tout court, è spesso condizione di degrado, di ricattabilità, di disgregazione famigliare anche se una certa retorica preferisce esaltarne i tratti da pedagogia francescana.
Ma forse – per parafrasare i versi di una celebre canzone – tutto questo Brambilla non lo sa.
Il fatto veramente rilevante è che, senza l'argine, senza la funzione di difesa della civiltà svolta dalla lotta di classe del proletariato, si può tranquillamente invocare sulla carta stampata la fame perché metta in riga i lavoratori.