LORO E NOI - 30/05/2019
 
Lenin nel frullatore storico del Corriere

La consapevolezza che la borghesia è una classe differenziata al suo interno, capace di articolarsi in frazioni, in componenti depositarie di specifici interessi in grado di manifestarsi in specifiche espressioni politiche ed ideologiche, è cosa buona e giusta. Bisogna però guardarsi dalla tendenza ad attribuire alle espressioni delle maggiori frazioni borghesi, quelle più proiettate sul mercato internazionale, quelle più legate a circoli politici e intellettuali più prestigiosi, quelle con una storia politica più ricca e complessa, una sempiterna e sempre valida patente di superiore spessore culturale, una immancabile intelligenza del corso storico, sia pure condizionata dalla propria natura di classe. In soldoni: è giusto considerare il Corriere della Sera qualcosa di diverso e  più meritevole di attenzione da parte della critica marxista rispetto a Libero e a il Giornale, ma ciò non toglie che alla bisogna, o influenzato dal clima generale del capitalismo italiano, lo storico quotidiano della borghesia milanese sappia scendere disinvoltamente ai miseri livelli della stampa viscerale del grande ventre piccolo borghese del Belpaese. È sufficiente, in questo senso, leggere l'intervento di Beppe Severgnini dell'8 maggio.
Tutto preso dalla lotta contro il populismo e la retorica populista contro le élite, l'opinionista si lancia in una breve (per fortuna) e delirante carrellata storica. In un attimo tra i demagoghi che hanno utilizzato la formula «popolo contro élites» finiscono annoverati, senza distinzioni di contesto storico e di connotazione sociale, figure che vanno da Tiberio Gracco a Maduro, passando per Lenin e Mussolini.
È comprensibile che lo stratega della rivoluzione di Ottobre sia destinato ad essere costante bersaglio dei servitori intellettuali della borghesia. Ma ciò che colpisce è che dopo essere stato criticato, da destra e da sinistra, per anni e anni, come arido ed elitario teorico di un ruolo guida per le minoranze rivoluzionarie, come negatore della genuina dimensione di massa della mobilitazione di classe, come autoritario fondatore del partito di quadri estraneo alle virtù del vero popolo lavoratore, Lenin si trovi oggi nello stesso frullatore storico insieme a Mussolini, nel nome della condanna della pratica di esaltare e fomentare il popolo come espediente per sostituire un'élite all'altra. Il nucleo essenziale e nefasto, la più pericolosa funzione reazionaria svolta dai contemporanei populismi è quella di negare, nascondere, rifiutare l'esistenza e il concetto stesso di classi, indirizzando lo scontento e le ansie di cambiamento del proletariato in modalità di contenimento e di utilizzo funzionali alla conservazione dell'ordinamento capitalista. La risposta di Severgnini costituisce l'altra faccia della medaglia ingannatrice della negazione delle classi e della loro lotta: se gli uni predicano la falsa rivoluzione del popolo contro le élite perché il capitale continui a regnare, l'altro teorizza la totale e passiva accettazione di ogni diseguaglianza e divisione di classe, in nome dell'«osmosi» sociale che, quando le democrazia è «sana», promuove costantemente i meritevoli al rango di ceto dirigente. La formula con cui Severgnini ha risolto la questione delle diseguaglianze sociali nel capitalismo è presto detta: «Tutti siamo popolo – votiamo, sperimentiamo le conseguenze delle nostre scelte – e tutti dovremmo poter diventare élite». Insomma, alla fine la miserrima dicotomia si riduce ai sostenitori di “tutti col popolo contro le élite” contrapposti ai propugnatori del “siamo tutti popolo e potenziali élite”. L'importante è che la realtà storica delle classi, la vera struttura di classe del capitalismo rimanga nell'ombra. Ci piacerebbe (ma sappiamo che è speranza vana) che da questo squallido gioco a rimpiattino tra espressioni borghesi fossero lasciati fuori Lenin e il marxismo. Ma quando, in mano agli ideologi della borghesia, anche quella che si pretende “illuminata”, la riflessione storica diventa un frullatore utile a sfornare la poltiglia richiesta dal livello del dibattito pubblico di un capitalismo impantanatosi nel suo imputridimento, anche culturale, questo e altro c'è da aspettarsi.