LORO E NOI - 15/12/2018
 
«In pari parti»

Si potrebbe scrivere trattati interi sull'opera di sistematica diseducazione della classe lavoratrice attuata per decenni da una sinistra ormai (e per di più fieramente) priva di ogni consapevolezza classista.
Concetti come quelli di legalità e giustizia sociale utilizzati disinvoltamente come sinonimi, lo Stato e i suoi apparati continuamente raffigurati come tendenziali incarnazioni del bene a cui le classi subalterne dovrebbero affidarsi, il culto per una Costituzione sottratta alla critica che merita ogni esito giuridico di una fase storica nella sua esistenza effettiva entro una reale dinamica sociale, a tutto questo si sono aggiunte a dosi massicce l'infatuazione per la magistratura come potenza salvifica e persino la via giudiziaria eletta a risorsa principe per ampi settori del mondo sindacale.
Se il ribellismo rozzo e superficiale, le suggestioni anarcoidi che si ritraggono di fronte al compito di comprendere la natura e l'azione delle sovrastrutture politiche, istituzionali e giuridiche nella loro complessità, costituiscono un vicolo cieco per la lotta proletaria, non di meno lo è questa pervasiva sudditanza ad un potere pubblico non capito nella sua essenza e nella sua funzione storica.
La realtà della società capitalistica per altro non manca di assestare puntuali colpi alle illusioni e di ribadire rudemente la verità delle cose.
A novembre il giudice del lavoro ha confermato la legittimità del licenziamento da parte di Ikea della lavoratrice addetta per 17 anni alla mensa di Corsico, un caso che aveva già ottenuto una certa visibilità mediatica.
Non solo la difficile condizione della donna (separata e con la necessità di seguire due figli, di cui uno disabile) non avrebbe giustificato la violazione della nuova turnazione (che impediva di accudire il bambino più in difficoltà), ma il magistrato ha anche ravvisato, nelle frasi ingiuriose rivolte dalla lavoratrice verso la propria responsabile, gli estremi dell'atto di «insubordinazione verso i superiori» (La Stampa, 13 novembre). Il giudice ha però aggiunto qualche considerazione molto significativa: la donna non ha rispettato la turnazione «per esigenze legittime» e l'espressione offensiva (la frase incriminata sarebbe: «mi avere rotto i coglioni») si colloca «in un contesto di obiettive difficoltà familiari e lavorative». Alla luce di queste oggettive condizioni, sentenzia il magistrato, «pare equo compensare le spese di lite tra le parti». Riassunto de La Stampa: «Niente reintegro, insomma, ma quanto versato per la causa sarà versato in pari parti con Ikea».
Insomma, da una parte una salariata, licenziata, madre e alle prese con una difficile situazione famigliare, esasperata per essersi vista imporre un cambio di turno che ostacolava le cure al figlio disabile, e dall'altra la potente multinazionale del mobile, il colosso mondiale dell'arredamento, faranno a metà delle spese del procedimento («in pari parti», precisa lo storico quotidiano di casa Fiat) e questo, osserva il giudice, «pare equo». Ed è logico, è coerente che sia così: il giudice nella società capitalistica non è chiamato ad esprimersi sulle differenze di classe, deve presupporle. L'incredibile sproporzione di forza economica e sociale tra le due parti non può indurre a sovvertire quei principi cardine del diritto oggettivamente posti a difesa della struttura della società borghese. La classe dominata la propria giustizia non la chiede, la conquista. Nel pieno e pressoché incontrastato dominio del capitale, quando la società borghese non è messa sotto pressione dalla lotta della classe operaia, questa è la giustizia.