LORO E NOI - 30/03/2018
 
Addio Leviatano

Un tempo essere popolo significava anche interiorizzare un'antica e amara esperienza di rapporti con il potere politico. Significava assimilare e trasmettere un'arcaica diffidenza verso lo Stato e le sue multiformi articolazioni. Nulla di paragonabile ovviamente alla profondità, alla organicità di pensiero della teoria marxista dello Stato. Ma tale diffidenza e avversione popolare poteva esprimersi nelle parole di un canto di protesta siciliano, legato all'insurrezione di Palermo del 1866, con i re che si giocano a zecchinetta (antico gioco di carte) «lu sangu di li genti». O tradursi nei versi di Trilussa riadattati e cantati nelle tradotte e nelle trincee della Grande Guerra: «Quel covo di assassini che ci insanguina la terra sa benone che la guerra è un gran giro di quattrini che prepara le risorse per li ladri delle borse». O nelle strofe di una canzone, sempre della Prima guerra mondiale, rivolta contro «il governo italiano prepotente come un cane». O persino filtrare nei testi di un cantautore come De André, quando ricorda come si possa «diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni». Evidentemente tutto questo riguardava una vecchia cultura popolare, ormai superata dal nuovo e moderno populismo, che annovera tra i suoi massimi esponenti il leader leghista Matteo Salvini. Il quale, chiamato ad esprimersi sulla vicenda della disputa innescata dall'avvelenamento di un ex agente dei servizi segreti russi e sua figlia in Inghilterra, ha pensato bene di ribadire il suo orientamento filo-Cremlino (non certo raro nel panorama politico italiano) con un'ardita generalizzazione. «Non penso ci siano governi che amano avvelenare le persone in giro per il mondo» (Corriere della Sera, 15 marzo).
Basterebbe solo questa frase a mostrare quale effettiva natura di classe possiede, quali interessi, quali forze sociali serve davvero l'oggi tanto sbandierato ed elettoralmente trionfante populismo.