LORO E NOI - 17/12/2017
 
Quando il mondo «nuovo» nasce vecchio

Una certa onestà va riconosciuta a Mattia Feltri che, su La Stampa del 23 novembre, è tornato, sulla scia della condanna inflitta dal Tribunale internazionale dell'Aja al comandante serbo-bosniaco Ratko Mladic, a riflettere sulla guerra nella ex Jugoslavia e su come allora venne diffusamente percepita. «Soprattutto noi, che in quei primi Anni Novanta eravamo ragazzi, vivevamo tutto questo come un accidente residuo, una coda sanguinosa ma periferica del secolo breve: prevaleva l'eccitazione del mondo nuovo, il crollo del muro di Berlino soltanto l'altroieri, la fine inebriante e selvaggia della Prima repubblica, la nascita dell'Europa col dissolversi dei confini. Non avevamo capito niente». La conclusione è molto amara: «Le memorie si disintegravano nella cronaca perché la guerra di Jugoslavia non era la fine del passato ma l'inizio del futuro. Stavamo ricominciando a tirare su muri, a dividerci per etnia, per lingua, per religione e oggi ancora non ci siamo, ma il compimento è vicino». É vero, le opinioni pubbliche occidentali furono travolte allora da una colossale sbornia ideologica: la fine del presunto comunismo, la fine della Storia, il trionfo di un mondo finalmente pacificato e destinato ad un crescente, generalizzato benessere, sotto l'ala benevola del mercato senza più freni e condizionamenti. L'Europa che si sarebbe unita prodigiosamente, finalmente liberata da egoismi e particolarismi dalla esaurita matrice sostanzialmente  ideologica. A pensarci ora sembra impossibile che simili assurdità abbiano potuto avere presa su masse di persone raziocinanti. Ma la pressione della falsificazione più grande della Storia, il comunismo realizzato in Urss e nei Paesi del Patto di Varsavia e il suo crollo come conseguente conferma di un capitalismo eterno e senza alternative, aveva alle spalle potentissime forze sociali. Era ideologia dominante perché sorretta dalla forza di interessi borghesi dominanti su scala globale. Per non cadere nell'illusione della fine delle guerre (perché generate da furori ideologici ormai superati e non da dinamiche imperialistiche, in forme diverse, persistenti), della fine dell'oppressione sociale e politica (non confinabile nella sfera dei collassati regimi del cosiddetto socialismo reale, versioni solo capitalisticamente meno efficienti della medesima struttura capitalistica imperante nel "libero" Occidente) e persino della fine della corruzione politica in Italia (perché addebitata ad una specifica gestione politica del capitalismo italiano e non alle profonde connessioni tra ceto dirigente borghese e poteri capitalistici), bisognava emanciparsi dalla schiavitù mentale nei confronti del dogma del marxismo seppellito sotto le macerie del Muro di Berlino. Bisognava avere la coerenza di pensiero, il coraggio intellettuale, la capacità di sottrarsi al dilagante conformismo ideologico, la propensione all'approfondimento più sincera e integra per volgersi al metodo marxista, il presunto grande sconfitto del tempo presente, proprio per capire questo tempo e gli sviluppi in esso contenuti. Va da sé, una faccenda per esigue e dileggiate minoranze. Ma il punto oggi è un altro. Di fronte ad un capitalismo ormai senza più comode "alternative" (solo menti ottenebrate o corrotte possono sostenere che la Cina, per non menzionare casi assai meno rilevanti per peso economico e politico internazionale, rappresenti una società estranea alle categorie basilari del capitalismo) e che continua a produrre immancabilmente guerre, sfruttamento, atroci diseguaglianze, fenomeni immani di disgregazione sociale, ammettere le proprie illusioni passate va bene. Ma è solo una parte del lavoro. Senza recuperare quell'insuperato metodo di comprensione del capitalismo, delle sue leggi, delle sue dinamiche storiche che è il marxismo, si rimane alla mercé delle future illusioni, incapaci di capire dove si trova la sorgente ultima delle contraddizioni che regolarmente infrangono le inevitabilmente frustrate aspettative di una società che possa liberarsi dagli orrori propri del capitalismo senza mettere fine al capitalismo stesso. L'unica altra opzione possibile è chiudersi in un terribile cinismo, in una lettura della storia umana ripiegata su una concezione dell'umanità senza speranze, condannata dalla propria nefasta natura. Questo via libera al perseguimento del più misero egoismo individuale (se l'essere umano non può che essere volto al male, se ogni rivoluzione è destinata a rinnegarsi, tanto vale farsi beatamente i fatti propri) ha un contenuto non meno ideologico degli spensierati inni al mondo unito e pacificato dal capitale trionfatore degli anni Novanta. La lotta di classe come motore del superamento di un modo di produzione divenuto ormai incompatibile con ulteriori sviluppi dell'organizzazione sociale non è millenaristica aspettativa. È un dato di fatto storico. La prospettiva di una rivoluzione contro il capitalismo non si è certo spenta con la fine dei regimi che avevano usurpato il richiamo al comunismo e al marxismo. Ed è infine talmente profondo il divario che divide il socialismo scientifico dalle sbronze ideologiche borghesi che, a differenza degli sprovveduti cantori del capitale, noi che ci siamo messi alla scuola del marxismo non scorgiamo nella rivoluzione necessaria per pervenire ad un superiore stadio sociale alcuna fine della Storia. Anzi, ne vediamo, in senso realmente umano, proprio l'inizio.