O sfruttati o fuori dall’Italia: la ricetta umanitaria del nostrano conservatorismo compassionevole
Il rogo della baraccopoli nel foggiano, in cui sono morti due braccianti immigrati, ha spinto Mario Giordano (La Verità, 4 marzo) ad utilizzare parole molto dure. Nel suo pezzo, le condizioni spaventose in cui questi lavoratori immigrati sono costretti a vivere sono descritte senza mezzi termini. Il tono dell’articolo vuole essere rude, aspro e urtante, in sintonia con il concetto con cui la testata ha voluto identificarsi.
Ecco quindi che il Gran Ghetto di San Severo è «una merda di posto», ecco la denuncia dello sfruttamento della «manodopera a basso costo», i lavoratori impiegati nei campi «per un tozzo di pane», il gioco al ribasso della concorrenza tra lavoratori stranieri e lavoratori italiani.
Eppure in tanto sfoggio di crudo realismo e di vigorosa capacità di dire pane al pane e vino al vino, una attenta, delicata, omissione deve far riflettere.
In tutto il pezzo ricorrono, quali uniche entità negative sul territorio, come unici diretti beneficiari delle condizioni disumane dei lavoratori agricoli, i caporali e la criminalità organizzata. Presenze ovviamente reali e nefaste, ma come mai in tutto l’articolo non compare mai una volta una parolina come “imprenditori”? Per chi operano i caporali? La presenza della malavita organizzata porta ad escludere l’attività di aziende che sulla pelle dei braccianti perseguono la massimizzazione del profitto? Si può porsi la domanda su a chi conviene il selvaggio sfruttamento di questi lavoratori senza nemmeno accennare alla realtà produttiva capitalistica, alle sue leggi, alla funzionalità che in essa rivestono le terribili condizioni dei braccianti? Evidentemente si può. Basta fornire una ricostruzione dove migliaia di lavoratori sarebbero sottomessi a caporali e a reti criminali che non hanno alcun aggancio, nessun nesso con la realtà produttiva, con l’attività imprenditoriale, con le logiche del capitale. Entità malvagie che si muovono e dominano il territorio lievitando su di esso senza alcun fondamento nella sua struttura economica e imprenditoriale...
Evidentemente anche un giornale che si chiama fieramente La Verità sa che all’occorrenza la verità è bene non dirla tutta, è consigliabile addomesticarla un po’. Tanto più che la vibrante denuncia ha un obiettivo ben preciso all’interno di una miserevole disputa tra frazioni ed espressioni politiche borghesi – e a tal fine non si esita ad utilizzare lo sfruttamento e la morte dei proletari – reso esplicito dall’indicazione di chi sarebbe il responsabile autentico di queste tragedie: l’«accoglienza», il «buonismo», la «politica delle porte aperte».
Eppure dovremmo, da un certo punto di vista, ringraziare Mario Giordano. A modo suo, a modo della corrente borghese a cui appartiene, ha illustrato con chiarezza le opzioni che la borghesia italiana riserva a masse di proletari alla ricerca di una vita migliore: o accettare il più spietato sfruttamento o fare il piacere di andare a crepare altrove (l’ipotesi che lavoratori stranieri e italiani si uniscano per scongiurare la concorrenza al ribasso e rivendichino un comune miglioramento delle proprie condizioni non è nemmeno lontanamente contemplata). All’orrore dello sfruttamento nei campi, che Giordano descrive con ricercata ruvidità, non è suggerita infatti altra alternativa che la fine dell’«accoglienza». All’ipocrisia dell’accoglienza sfruttatrice viene contrapposta solo l’aperta indifferenza per le vite di milioni di esseri umani. Insomma, la soluzione al dramma di lavoratori immigrati costretti a vivere e a morire in infami baraccopoli sarebbe lasciare che muoiano altrove, nelle guerre, nelle bidonville, nelle carestie, ma ben distanti dai confini nazionali. Lontan dagli occhi, lontan dal cuore...
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