I deboli
Da tempo ormai si discute della mancanza di un partito politico che raggruppi il cosiddetto popolo della sinistra, molteplici sono stati i tentativi di costituirlo, ad oggi scarsamente riusciti. E su questo tema assistiamo proprio in questo periodo ad una resa dei conti all'interno del Pd. Al di la delle diverse dichiarazioni e delle diverse proposte per far risorgere la sinistra parlamentare italiana, vorremmo soffermarci su una risposta che il sagace Fabio Martini, su La Stampa del 15 febbraio, fornisce ad un lettore che si ostina a immaginare una sinistra che si possa ricompattare mettendo al centro i bisogni dei lavoratori e rompendo con la prassi che ha portato al Jobs Act. Certe affermazioni, su un grande giornale della borghesia italiana, non possono passare impunite e così il giornalista della storica testata di casa Fiat non perde l'occasione per difendere a spada tratta la legge simbolo del Governo Renzi: «Quella legge ha favorito occupazione stabile, con un importante aumento dei contratti a tempo indeterminato e ha esteso gli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori». Per arrivare a spiattellare una così paradossale versione degli effetti del Jobs Act qualcuno potrebbe esser indotto ad immaginare un utilizzo sapiente e sottile di chissà quali tecniche narrative, l'impiego di sofisticate strumentazioni propagandistiche. La realtà è ben più semplice: basta continuare a chiamare contratto a tempo indeterminato ciò che non lo è più, basta tacere sul boom di licenziamenti disciplinari, sulle norme sul demansionamento e sul controllo a distanza dei lavoratori, e il gioco è fatto! Ma Martini non si ferma alla difesa d'ufficio del Jobs Act e, nell'affrontare le tematiche sollevate dal lettore, pensa bene di fare ricorso al sempre utile calderone interclassista: «[...] sono aumentate le figure sociali (giovani, cinquantenni, disoccupati, piccole partite iva, piccoli artigiani, piccoli commercianti e via di questo passo) bisognose di un partito di sinistra che li tuteli». Ed ecco che il «vero interrogativo» al centro del ragionamento del giornalista de La Stampa è presto detto: «Come si difendono meglio i più deboli?». Lasciamo volentieri l'ennesimo cantore del Jobs Act a interrogarsi su come sia «sempre più difficile capire cosa sia veramente di sinistra e cosa di destra» e concentriamoci, ma seriamente, senza retorica, sul concetto di «deboli». Tale aggettivo ha senso solo se lo si contestualizza all'interno dei rapporti sociali di produzione. Le varie componenti della borghesia sono deboli dal momento che non riescono a inserirsi con forza nella lotta per la ripartizione del plusvalore complessivo. Si dimostrano deboli dal momento che non riescono ad intercettare quote di plusvalore frutto del lavoro della classe salariata. Per noi in questa società basata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, gli unici deboli che sono sfruttati e il cui sfruttamento garantisce l'esistenza del capitale, che non hanno nulla da guadagnare dal perdurare del capitalismo, che rappresentano una debolezza che può storicamente tramutarsi in forza rivoluzionaria, sono i salariati, la classe subalterna. E i proletari saranno tanto più deboli quanto più subiranno, senza reagire, gli attacchi delle varie componenti borghesi (grandi e piccoli borghesi, grande capitale, padroncini e piccoli commercianti) e ancora più deboli se resteranno divisi, gli uni contro gli altri e senza una vera organizzazione di classe. Non saranno i Governi di destra o di sinistra a far uscire i proletari dal loro stato di debolezza, ma solo la loro lotta autonoma. Lo potrà fare la conquista di quella coscienza di classe che potrà emanciparli anche dalle squallide formule di quegli ideologi borghesi che, mentre distillano mielose frasi di compatimento per i «deboli», non dimenticano di sostenere i provvedimenti con cui indebolire ulteriormente il proletariato.
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